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martedì 18 febbraio 2014
Nella rete di Poseidone
Le notizie girano in tempo reale sulla rete. Attenti ai fake!
PS: si vede così tanto che il tempo per aggiornare il blog è poco? :-)
NB l'immagine non è mia, ma è presa dal web e non mi appartiene
sabato 19 marzo 2011
MIGRAZIONI - E tui, de chini sesi? 13 (Dall'Asia Minore con Furore)

Dall'antica Asia Minore, l'attuale Turchia che potrebbe vedere a breve un viaggio in direzione contraria da parte dell'estensore di queste note, due correnti migratorie (forse) sono giunte sulle nostre terre.
Entrambe, in realtà, parlano più dei nostri dirimpettai oltre Tirreno, ma danno due varianti alla colonizzazione della Sardegna.
E con loro abbiamo davvero finito le colonizzazioni mitiche: dopo ci sarà solo la storia, con Fenici, Punici e Romani.
Ma immergiamoci ancora nel mito.
Ricordate Sardo e i suoi Libi? Ricordate come il figlio di Eracle diede il nome alla Sardegna?
Beh, dimenticate tutto, perché c’è una versione molto, molto alternativa
al tutto.Il Timeo di Platone è una delle opere più note del filosofo. Non tanto per il suo valore filosofico (una noiosissima descrizione dei buoni costumi antichi e dello stato ideale), quanto perché lì nasce il mito di Atlantide.
Sì, proprio quella Atlantide di cui ci cantarono De Gregori e Battiato, quella di Martin Mystère e di infinite variazioni moderne.
Forse da Atlantide venne l’esercito guidato da Atlante che sconfisse Forco, re di Sardegna e Corsica.
Ma, direbbe qualcuno di più recente, la Sardegna stessa ERA Atlantide…
Rimandando a momenti più propizi (e più conviviali) la fanta-archeologia, qui accenniamo solo al fatto che il Timeo, come tante opere antiche celebri, fu commentato fin dall’antichità. Così ci sono stati conservati degli “scoli”, annotazioni e glosse a margine dei codici antichi.
Proprio da loro traiamo la “versione alternativa” di Sàrdo, o per meglio dire Sardò.
Solo un accento diverso? Beh, proprio non diremmo. Innanzitutto perché Sàrdo è figliO (= maschio) di Eracle, mentre Sardò era una donna!
E poi, mentre Sàrdo era Libico, Sardò era asiatica, proveniente dalla Lidia.
Ma vediamo chi era più nel dettaglio...
Sardò era moglie di Tirreno, e questo è certo.
Che coincidesse anche con la figlia dell'argivo Stenelo, anche lei dallo stesso nome, e anche lei presunta eponima della città di Sardi in Lidia, beh, questo non è dato saperlo.
Questi, a seguito di una profezia, salpò dalla Lidia e giunse sulle rive del Mar Tirreno. Sua
moglie, che già aveva dato il suo nome alla città di Sardis (appunto, in Lidia), lo seguì, e diede il suo nome anche alla Sardegna.E qui lo scolio introduce un nome per l'isola che non abbiamo ancora visto: Argyrofleps.
Fin qui, solo un’altra versione etimologica, utile per dare un nome al Mar Tirreno, alla Tirrenia\Etruria e alla Sardegna.
Se non che, qualcuna altro ci parla di Tirreno e della sua migrazione, pur senza citare la Sardegna: è quel gran contafrottole di Erodoto.
Secondo lui l'origine degli Etruschi\Tirreni, infatti, va cercata proprio in Asia Minore.
Erodoto, infatti, narra che una devastante carestia attanagliava la Lida: essa durava da ben 18 anni!
Il re Atis, re della Lidia, fece un estremo tentativo di salvare il salvabile trasformando quello che sarebbe diventato poi il luogo comune a Roma: niente panem, ma solo circenses! Infatti prescrisse che i suoi sudditi mangiassero solo a giorni alterni (sic!) ordinando che nel giorno di astinenza si doveva solo giocare.
Ma il cibo non bastava ancora: così decise a sorte di lasciare metà della popolazione nella Lidia con a capo lo stesso re, mentre l’altra metà doveva salpare in cerca di miglior fortuna sotto la guida del proprio figlio Tirreno. Secondo altre versioni a restare in loco fu Lido, uno dei figli, e da
lui la zona avrebbe preso il nome di Lidia.Ma prescindendo su chi sarebbe rimasto in Asia Minore, le fonti concordano che Tirreno si pose a capo dei migranti, partì verso occidente e diede il nome al popolo dei Tirreni e al mare (Tirreno) che bagnava la terra in cui sbarcarono: l'Etruria.
Se la Sardegna sia stata toccata dalla spedizione prima o dopo l'insediamento sulle coste dell'attuale Toscana, questo non è dato saperlo.
Sempre dall'Asia Minore sarebbe arrivata l'ultima ondata mitica di colonizzazione.
Se vi ricordate, l'ultima volta abbiamo detto come tra le popolazioni affrontate da Cartaginesi e Romani, si trovassero gli Iolei, i discendenti di quei Tespiadi digli di Eracle. Ma Pausania li chiama "Iliensi".
E qui scatta (forse) il processo di (ri)costuzione di un mito a partire da un nome: perché Ilienses era riconducibile a Ilium, altro nome della favolosa Troia di Omero.
Già si raccontava che sia Greci che profughi troiani migrarono a occidente dopo quella guerra, e presto a Roma diverrà versione ufficiale di stato il fatto che sulle coste laziali sbarcò l'ultimo campione dei Troiani\Iliensi, ovvero quell'Enea da cui discese la Gens Iulia.Virgilio nell'Eneide ci parla di coloni troiani rimasti in Sicilia, ma perché escludere che alcuni di questi profughi non si siano insediati in Sardegna?
Servio, il grande commentatore dell'Eneide, in due punti riporta le opinioni del romano Sallustio, che tramandava esplicitamente l'arrivo di coloni Troiani in fuga.
Ma è il nostro turista Pausania a dirci che una parte dei Troiani di Enea, trascinati dai venti, sbarcarono in Sardegna e qui si mescolarono ai Greci già presenti (Ateniesi ed altri sotto la guida dei Tespiadi, e forse dei coloni qui giunti con Aristeo).
Qui ci fu lotta contro i Barbari lì residenti. Chi fossero questi Barbari, qui non è specificato, ma abbiamo visto in precedenza che anche Pausania in altri luoghi aveva già parlato degli Indigeni, dei Liguri\Corsi, dei Libi giunti con Sàrdo figlio di Makeris\Eracle e dei Balari di Norache.
Sta di fatto che il conflitto armato, in realtà, non esplose del tutto: le due forze erano pressoché pari, e tra loro scorreva il fiume Tirso. Possiamo immaginare i due schieramenti che si guardano in cagnesco per un certo lasso di tempo dalla rive opposte del fiume, aspettando che fosse l'altro a fare il primo passo: entrare nel fiume per guadare avrebbe reso lo schieramento attaccante più vulnerabile.Però secondo Pausania nessuno si mosse, e alla fine ciascuno tornò alle proprie terre.
"Dopo molti anni" giunsero gli "africani", cioè i Cartaginesi. Avevano già fatto una spedizione sull’Isola, con scarso successo, a quanto ci è dato di capire: stavolta tornavano con un esercito in grande stile. I Greci "vennero nello loro totalità annientati", e solo pochi di essi restarono
sull'isola.Poi Pausania sembra far intuire che la fusione tra i due popoli di cui aveva parlato prima (Greci e Troiani) non fosse stata così perfetta: perché se i Greci furono quasi completamente annientati, specifica che i Troiani, invece, si rifugiarono nelle montagne. Qui, occupando montagne di difficile accesso ben protette da opere difensive e da precipizi, i Troiani sopravvivevano ancora ai tempi del nostro ellenico routard (II secolo d.C.) conservavano il nome di Iliesi, anche se si erano imbarbariti ed erano diventati "simili agli Africani nell’aspetto, nell’armatura ed in ogni loro costume di vita".
Anche Pausania, quindi ripete lo schema che abbiamo già visto nella narrazione delle ultime vicende di Tespiadi\Iolei di cui ci parla Diodoro Siculo.
Dove sta la verità mitica? Mungere troppo le scarse informazioni che abbiamo può portare solo ad illazioni e ipotesi poco verificabili con lo strumento della mitologia.
Ma su una cosa tutti i mitografi concordano: in tanti volevano andare in Sardegna, e l’isola del mito era una terra felice e ricca. Nella contemporaneità degli scrittori, però, era diventata solo una terra di sfruttamento, da parte dei Fenici prima e dei Romani poi.
La Sardegna entrava nella storia con quel ruolo: e forse lo mantiene ancora oggi.
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lunedì 7 marzo 2011
MIGRAZIONI - E tui, de chini sesi? 12
Ed ecco l’ultimo post (davvero!) sui Tespiadi in Sardegna.Li abbiamo lasciati orfani del loro pater spirituale, cioè Iolao, ma ben insediati nelle regge dell’isola, ricchi e indipendenti.
Il solito Diodoro Siculo ci dice che la colonia ricevette un oracolo, presumibilmente prima della partenza: tutti coloro che avessero partecipato alla spedizione sarebbero rimasti per sempre liberi.
Lo stesso Diodoro, che ha vissuto intorno all’inizio del I secolo a.C., si stupiva che “contro ogni aspettativa” l’oracolo si fosse rivelato corretto fino ai suoi tempi, nonostante gli attacchi dei Cartaginesi e dei Romani.
Ma Diodoro ci informa anche che qualcosa era cambiato: i discendenti dei Tespiadi, che erano stati signori dell’isola per molte generazioni, alla fine erano stati cacciati dal loro popolo.
Lo storiografo\mitografo non ci da’ le ragioni: si limita a dire che i discendenti di Eracle lasciarono l’isola e giunsero nella costa campana, più precisamente nei dintorni di Cuma. Gli Iolaei rimasti scelsero come capi gli aristoi, e continuarono a difendere la loro libertà.
Chi erano questi aristoi? Erano stati scelti al momento della rivolta, o c’era già una nobiltà al di sotto delle famiglie regnanti dei Tespiadi?
Le risposte possono essere solo ipotesi.
Sta di fatto che per Diodoro, gli Iolaei persero lo splendore che li aveva contraddistinti nell’epoca dei Tespiadi. Si imb
arbarirono, e per salvaguardare la loro indipendenza dagli stranieri lasciarono le ricche coste e le pianure Ioalee per rifugiarsi nell’interno. Qui, grazie all’asperità del terreno e a quelli che Diodoro definisce “inestricabili sotterranei”, tutte le spedizioni cartaginesi terminarono in un fiasco: in un altro punto, lo storico fa capire che queste dimore sotterranee, antenate del maialetto e del fil di ferro di epoche più recenti, erano pressoché introvabili.Quando poi arrivarono i Romani (da 238 a.C.) la situazione non cambiò: nonostante i ripetuti trionfi su Sardi e Corsi, per Diodoro queste popolazioni non furono ami davvero sottomesse, anzi.
In un altro passo, infatti, Diodoro aggiunge che gli Iolei si erano rifugiati sulle montagne; lì avevano costruito dimore sotterranee di cui abbiamo detto sopra e allevavano mandrie che li rendevano autosufficienti: da buon greco (e siceliota, per di più), Diodoro vede una regressione nell’abbandono dell’agricoltura a favore di una preponderante pastorizia. Questi sardi “imbarbariti” si accontentavano di consumare latte, formaggio e carne e, abbandonata la pianura, “evitavano la fatica del lavoro dei campi”.
Diodoro ci dice altrove che questo ritorno alla barbarie fu dovuto proprio all’assenza della “mano greca” dei Tespiadi, perché i barbari erano numericamente superiori ai coloni greci, presto li assorbirono. Ma questa “barbarie” non doveva essere poi così terribile: per Diodoro, alla fine i Sardi trascorrevano una vita senza pene paghi dei menzionati cibi.
Ma non di sola carne vive l’uomo, e così Strabone (vissuto tra il 63 a.c. e il 20 d.C), ci dice che le parti fertili dell’Isola, ancora in epoca imperiale, venivano continuamente saccheggiate dagli abitanti delle montagne, chiamati Diagesbei, “mentre un tempo erano chiamati Iolei”.
L’altra nostra fonte più ampia, Pausania, ribadisce che la “protezione delle montagne” garantì a Iliesi e Corsi la salvezza dalla flotta cartaginese. E aggiunge che furono i punici, e non i prec
edenti colonizzatori, a edificare Karali e Sulci.Edificare o riedificare?
O, semplicemente, come accadrà millenni dopo ad Alghero, sgombrare le principali città dagli abitanti locali per sostituirli con coloni punici?
Altre ipotesi che non possono trovare una risposta definitiva.
Ma attenzione: abbiamo detto che se Diodoro parla sempre di Iolaei (poi rinominati Diagesbei, secondo Strabone), Pausania parla di Iliesi, come il geografo Pomponio Mela.
Una piccola differenza di pronuncia, di trascrizione o qualcosa di più?
Nel mito le parole, le sfumature sono importanti. Alcuni miti sembrano nati da etimi sbagliati…
Torniamo a Strabone: secondo lui “barbari” dell’isola, poi unitisi ai Tespiadi, erano Tirreni. E di questo dovremo parlare, anche se il fatto che i due popoli abitavano le due sponde dello stesso mare avrà di certo condizionato questa teoria.
Ma più interessante è ciò che dice Pausania. Parlando delle spedizioni dei Cartaginesi sull’isola, dice che essi annientarono quasi completamente gli Elleni, cioè gli Iolei. Ma, e qui sta la sorpresa, gli Iliei (non Iolei) dell’epoca dello scrittore non erano i sopravvissuti degli Elleni, bensì… dei Troiani!
Sì, proprio i Troiani si rifugiano nei “luoghi alti dell’isola” e nelle montagne “dal difficile accesso”, protette da opere difensive e precipizi.
Silio Italico, poeta del I secolo d.C. conferma e chiarisce che non si trattava di una svista, ma di una precisa linea della tradizione mitica: i Teucri (altro nome dei Troiani) sarebbero giunti in Sardegna “gettati dal mare” (naufragati? Dopo una tempesta?), e qui li raggiunse Iolao con i suoi Tespiadi.
Non che questi Teucri\Iliei abbiano un destino diverso: anche per Pausania si imbarbarirono, divenendo simili ai Libi nell’aspetto, nelle armature e in ogni altro costume di vita.
Ma questi “Libi” cui assomigliavano, chi erano? I Cartaginesi? O i Libi di Sardo che forse erano al “componente più numerosa” che aveva assorbito i greci (e, a questo punto, i Troiani)?
Ancora una volta le risposte possono essere solo frutto di ipotesi.
Ma di Sardi\Tirreni e di Sardi\Troiani, ne parleremo prossimamente.
Altre ipotesi che non possono trovare una risposta definitiva.
Ma attenzione: abbiamo detto che se Diodoro parla sempre di Iolaei (poi rinominati Diagesbei, secondo Strabone), Pausania parla di Iliesi, come il geografo Pomponio Mela.
Una piccola differenza di pronuncia, di trascrizione o qualcosa di più?
Nel mito le parole, le sfumature sono importanti. Alcuni miti sembrano nati da etimi sbagliati…
Torniamo a Strabone: secondo lui “barbari” dell’isola, poi unitisi ai Tespiadi, erano Tirreni. E di questo dovremo parlare, anche se il fatto che i due popoli abitavano le due sponde dello stesso mare avrà di certo condizionato questa teoria.
Ma più interessante è ciò che dice Pausania. Parlando delle spedizioni dei Cartaginesi sull’isola, dice che essi annientarono quasi completamente gli Elleni, cioè gli Iolei. Ma, e qui sta la sorpresa, gli Iliei (non Iolei) dell’epoca dello scrittore non erano i sopravvissuti degli Elleni, bensì… dei Troiani!
Sì, proprio i Troiani si rifugiano nei “luoghi alti dell’isola” e nelle montagne “dal difficile accesso”, protette da opere difensive e precipizi.
Silio Italico, poeta del I secolo d.C. conferma e chiarisce che non si trattava di una svista, ma di una precisa linea della tradizione mitica: i Teucri (altro nome dei Troiani) sarebbero giunti in Sardegna “gettati dal mare” (naufragati? Dopo una tempesta?), e qui li raggiunse Iolao con i suoi Tespiadi.
Non che questi Teucri\Iliei abbiano un destino diverso: anche per Pausania si imbarbarirono, divenendo simili ai Libi nell’aspetto, nelle armature e in ogni altro costume di vita.Ma questi “Libi” cui assomigliavano, chi erano? I Cartaginesi? O i Libi di Sardo che forse erano al “componente più numerosa” che aveva assorbito i greci (e, a questo punto, i Troiani)?
Ancora una volta le risposte possono essere solo frutto di ipotesi.
Ma di Sardi\Tirreni e di Sardi\Troiani, ne parleremo prossimamente.
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venerdì 2 aprile 2010
TUTTI FIGLI DI EVEMERO\ REMYTHS - Demoni assassini, cagnoloni e viaggi nel tempo

Prima o poi vi parleremo anche di "Age of Bronze", la saga USA che rinarra in maniera evemeristica e archeologicamente "aggiornata" la Guerra di Troia.
Ma visto che, in attesa delle epiche avventure di Atenodoro l'Acheo, anche il fumetto italiano ha fatto una puntata sulla piana dello Scamandro, perchè non commentare questo Lilith numero 1 ("Il segno del Triacanto"), uscito per i tipi della Bonelli nel novembre 2008 e giunto tra le mie adunche mani colpevolmente in ritardo?
Il fumetto, scritto e disegnato da Luca Enoch, risente del suo essere il numero uno di una serie prevedibilmente pluriennale (anche perchè la cadenza delle uscite è semestrale!): molta, forse troppa carne al fuoco tra presentazione di protagonista, missione, comprimari e della terribile minaccia con i suoi sgherri.
Se poi si aggiungono da un lato la necessità di "dare il nome da battaglia" al personaggio una volta che abbia capito in cosa consisterà davvero la sua missione, e dall'altro la trovata dei viaggi nel tempo, ecco che la lettura di questo numero uno risulta non agevolissima.
Ma che c'entra tutto ciò col mito e con Troia?
C'entra, c'entra... perchè la prima missione della giovane Lyca, partita da un futuro lontano per giungere in diversi tempi del passato ed eliminare la minaccia che ha condannato la sua civiltà ad una vita sotterranea, questa missione, appunto, si svolge nell'ultimo anno dell'assedio di Wilusa la ventosa: la superba Ilio di cui cantò Omero.
E qui Enoch non resiste alla tentazione della razionalizzazione evemerista, ovvero di spiegare "razionalmente" e "scientificamente" tutto ciò che agli antichi doveva apparire sovrannaturale.
Visto che Lilith un fumetto di avventura fantascientifica in cui "tutto deve tornare", di immaginario ci possono essere solo i presupposti di immaginazione scientifica (viaggio nel tempo, modificazioni genetiche, ibridi...).
Sulla linea di un "Hyperion" ma anche, come detto, di "Age of Bronze", ecco così costruirsi un assedio umano, troppo umano.
Sulla piana di Taruisa, gli Achei\Ahhiya sono ingordi assedianti, con un Akireu\Achille sicuramente non invulnerabile, ma violento saccheggiatore delle città satelliti per sfiancare la città principale; armi e armature sono "filologicamente" corrette dal punto di vista archeologico; Troia appare secondo le ricostruzioni più recenti; scompaiono Elena e Paride, e l'assedio è motivato da questioni economiche.
Ma soprattutto il cavallo di Troia diventa una torre d'assalto e la conquista dei greci viene favorita da un terremoto... e così abbiamo così due spiegazioni del "cavallo di Troia" in una! Tra gli studiosi razionalisti c'è, infatti, chi sospetta che dietro il mito del cavallo di legno si nasconda una macchina d'assedio a forma di questo animale (e non del succssivo "ariete"), e altri che tirano in ballo Poseidone, dio del mare, ma anche dei cavalli (guarda un po'!) e dei terremoti: proprio un sisma, secondo alcuni dati archeologici, avrebbe fatto crollare parte delle mura di quella che viene identificata come la "Troia omerica".

Quanto agli dei, latitano. Abbiamo, in realtà solo un abbaglio, un'illusione: Lyca stessa viene scambiata per una dea sia dai Troiani che dagli Achei.
Ma anche i suoi poteri sono "spiegabili": è frutto di una mutazione genetica e di innesti non meglio spiegati, che le danno una forza sovrumana e una pelle invulnerabile; vola grazie a un suo "famiglio" (un cagnone\pantera parlante, volante e invisibile a tutti tranne che a Lyca); sarà lei a determinare la rovina di Akireu (Lyca è una citazione da Apollo Licio oltre che della "fanciulla peduta" di William Blake?), togliendogli la luce del sole... E leggete l'albo per sapere ciò che significa!
Per il resto la vicenda presenta alcune variazioni rispetto a Omero: oltre all'assenza di Paride ed Elena di cui abbiamo detto (ma anche di Menelao), Aiace Telamonio viene ucciso da Lyca così come un eroe troiano che leggendariamente era destinato a ben altro. Inoltre la ragazza è implicata anche nella "nascita" di Omero... sì, perchè c'è anche Omero che "assiste" in diretta a gran parte degli avvenimenti narrati!
Quanto al nome di Lilith, beh, la nostra eroina se lo merita. In preda a un furore berserk fa stragi, e la sua missione per distruggere un parassita che porterà alla rovina del nostro futuro, implica che sia una spietata assassina. Così un giovane fanciullo le darà il nome di Lilitu, la demone mesopotamica "portatrice di disgrazia, malattia e morte", come ci specifica in nota Enoch.
Ma visto che "Lilitu" è un nome che forse si poteva usare nella Troade ella tarda età del bronzo, ma non così attraente da un punto di vista editoriale, ecco che il cagnone si prepoccupa di dare l'equivalente ebraico di Lilitu, ovvero il nome della prima moglie di Adamo: la nostra Lyca rinnega il suo nome, e prende quello più spietato di Lilith.
Peccato che tra gli ebrei Lilith avesse abdicato lo sterminio generalizzato per concentrarsi sull'uccisione solo di bambini, cosa che non vedremo facilmente in un albo Bonelli!
Per la pagina di Lilith sul sito ufficiale della Sergio Bonelli Editore clicca qui!
giovedì 10 settembre 2009
MITOLOGIA COMPARATA – Fiori di melo, tempo di spose 2

Proseguiamo l’esplorazione dello strano legame che unisce il mito relativo al matrimonio con una mela, spesso e volentieri d’oro.
Stavolta non parleremo, però di furti di mele d’oro, anche se l’astuzia non manca.
Abbiamo già raccontato della mela d’oro con sopra scritto “Alla più bella”: la perfida Eris, dea della discordia, la lanciò sul tavolo del banchetto nuziale di Teti e Peleo, cui assistevano tutti gli dei.
Un matrimonio, una mela d’oro... e come conseguenza la Guerra di Troia!
Ma il legame più stretto tra mele d’oro e matrimonio appare nel mito di Atalanta, dove le mele sono il mezzo che porta al matrimonio di un vergine riottosa.
Atalanta era una vergine cacciatrice, e come accadeva per altre donne della mitologia greca (o della fiaba) era assai difficile da sposare: secondo alcuni per una profezia che minacciava la sua trasformazione in animale dopo le nozze, secondo altri per devozione alla dea Artemide, altra vergine cacciatrice.
Se in altri miti per il padre a non volere dare la mano della figlia (e il regno) a un futuro genero, il caso di Atalanta era simile a quello della lirica Turandot: era la donna stessa a non volersi sposare, e anzi lei imponeva ai pretendenti una prova impossibile, con la condizione che se lo spasimante non avesse avuto successo sarebbe stato ucciso.
Atalanta era velocissima: così sfidava i pretendenti in una gara di corsa, si dice che desse al pretendente un leggero vantaggio, e che lo inseguiva con una lancia, con la quale lo uccideva non appena lo raggiungeva. Ormai molti erano stati battuti e uccisi, quando Ippomene (o, secondo altri, Melanione) decise che avrebbe tentato al prova.
Dalla sua parte aveva l’astuzia della dea dell’amore, Afrodite, sempre disponibile a sabotare i propositi di castità dei fedeli di Artemide. La dea dell’amore aveva dato al giovane tre pomi d’oro, si dice provenienti dal Giardino delle Esperidi, suggerendogli la strategia: ogni volta che Atalanta si avvicinava, Ippomene lasciava cadere una mela d’oro; Atalanta, curiosa, forse innamorata, o semplicemente avida (e se fosse così il mito avrebbe già i connotati maschilisti odierni delle teorie sulle ragioni di alcuni matrimoni), per tre volte si chinò per raccoglierne una, perdendo il ritmo, la gara... e lo stato di nubile.Il matrimonio si celebrò, e pare che Atalanta, alla fine, non ne disprezzasse le gioie. Da vergine cacciatrice divenne un’amante fin troppo appassionata: durante una caccia lei e il marito entrarono in un santuario di Zeus (ma secondo altri si trattava di un Tempio della Madre degli Dei Cibele) e non riuscirono a trattenersi dal... “famolo in un luogo strano”. Sta di fatto che la divinità cui apparteneva quel luogo sacro punì entrambi, trasformandoli in leoni.
I Greci credevano che, in conseguenza di ciò, i leoni non si accoppiassero tra di loro, ma solo con i leopardi.
Nota: si dice che il famoso frutto proibito mangiato da Adamo ed Eva fosse una mela. E si dice anche che la conoscenza che esso diede fosse quello della sessualità...
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domenica 14 giugno 2009
GO(D)Ssip - Concorsi di bellezza divina 2
Il concorso di bellezza per eccellenza fu il Giudizio di Paride. Tre dee bellissime (Era, Atena, Afrodite), un giudice mortale (Paride, principe di Troia, in quel momento pastore), un presentatore (Ermes), un premio ambito (una mela d’oro su cui c’è la scritta “Alla più bella”).Paride fa il furbone. Vista la situazione, chiede di valutare le dee al naturale, ovvero completamente nude: il pastorello cerca di prendere il massimo da quella strana situazione che non promette nulla di buono.
Le tre dee, invece di scandalizzarsi e trasformarlo in rospo, accettano. Sono furbette anche loro: più che punire mortali, ciascuna di loro vuole umiliare le altre due concorrenti, sbatter loro in faccia per l’eternità chi è la più bella. Poter dire: “Mi rubi questo santuario? Ma io sono più bella di te!”.
Dee molto terrestri, quindi.
Così, per ciascuna delle tre, presentarsi nuda e farsi “esaminare” dal giurato, è l’occasione per tentare la corruzione dello stesso. Cose che si vedono anche tra i mortali, insomma.
La prima a presentarsi è Era, la boopis (dagli occhi grandi come quelli di un bue... caratteristica di raffinata bellezza per i Greci). La regina degli Dei non è niente male: la sua bellezza da donna adulta ma nel pieno del suo fascino, tiene legato Zeus (benché il maritino si diletti di cornificarla appena può), e un bagno annuale nella fonte di Canato, presso Argo, le restituisce ciclicamente la verginità.Mentre Paride esamina con cura ogni centimetro del corpo divino, la Regina degli Dei gli sussurra che se scaglierà lei, Paride sarà ricompensato con la signoria su tutta l’Asia e immense ricchezze.
Poi è la volta di Atena, la glaucopis (occhio ceruleo), forse per la prima volta senza l’elmo (Afrodite aveva insistito su questo fatto: pare che la capigliatura delle dea sempre armata non fosse in ordine).
Anche questa dea non è niente male. Possiamo immaginare un fisico asciutto, temprato da mille battaglie... quel mix di femminilità e di androginia che fa impazzire tanti maschietti. E in più la dea fa la sua corruzione: se Paride sceglierà lei, gli dice a bassa voce, la dea farà di Paride l’uomo più saggio della terra e un guerriero invincibile.
La terza è la divina Afrodite, che priva della sua famosa cintura ammaliatrice, tuttavia sfoggia la parte anatomica che la ha resa famosa come la dea Callipigia (ovvero: dal bel sedere).ma nonostante il suo fulgore, anche Afrodite tenta la corruzione: nell’esame, dice a Paride che ricchezze e regni non gli sono necessari, in quanto è figlio di Priamo re di Troia e di mezza Asia (e questo, secondo le leggende che volevano Paride abbandonato alla nascita e inconsapevole delle sue origini, deve essere stato un bel colpo di scena).E poi promette a Paride, l’uomo più bello del mondo, l’amore della donna più bella del mondo, ovvero Elena di Sparta.
Paride tentenna. Chiedi informazioni su Elena. Risposta: “Elena, figlia di Zeus, è bionda e di carnagione delicata, perché nata da un uovo di cigno. Gli uomini hanno lottato per lei fin dalla sua più tenera infanzia, e tutti i principi della Grecia hanno chiesto la sua mano. Benché sia sposata a Menelao, io giuro che la farò innamorare di te”.
Paride non tentenna più: una gran bella figliola, la più bella del mondo, anzi! E poi far vedere a tutti che lui viene scelto a dispetto del fior fiore della Grecia...
Ovviamente Paride consegna la mela ad Afrodite, guadagnandosi la protezione della dea e, dopo poco tempo, Elena.
E, come accade in tutti i concorsi di bellezza, che fanno le escluse? Non si poteva fare ricorso al giudizio, ma vendicarsi sì. Ed essendo dee, non si limitarono a pubblicare indiscrezioni maligne sul web relative agli amorazzi di Afrodite, o all’incapacità di giudizio del giurato, ma prepararono la distruzione di Troia e di tutta la casa di Paride.
Una dea, come una donna, non prende mai bene il fatto che non apprezzino le sue grazie!
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sabato 13 giugno 2009
GO(D)Ssip - Concorsi di bellezza divina 1
L’estate porterà anche quest’anno con sé la solita pletora di concorsi di bellezza per maschi, femmine, cantanti, mamme, frequentanti spiagge...Anche i nostri amati dei ogni tanto si dilettavano in gare di bellezza, anche se con premi (e conseguenze) certamente non paragonabili a una foto su un rotocalco estivo.
Ovviamente la vasta folla conoscerà il celeberrimo Giudizio di Paride, la causa prima (?) della Guerra di Troia.
I presupposti in sintesi: gli dei sono al banchetto delle nozze di Teti e Peleo, ma come sempre qualcuno viene escluso. Cioè la vecchia zia Eris.
Anche gli dei sono un po’ da capire: in fondo, invitare a un matrimonio la dea preposta alla Discordia non sembrava di buon auspicio (e infatti il matrimonio andò male lo stesso). La dea, vendicativa, si intrufola lo stesso e lancia sul tavolo una mela d’oro con una scritta enigmatica: “Alla più bella”.
Apriti cielo! Subito si alzano tre dee, che da buoni modelli per le donne mortali, non accettano di essere seconde a nessuno in bellezza.
Si candidano al ricevere la mela Afrodite, dea dell’Amore e della bellezza, Era, la moglie ufficiale di Zeus, regina degli dei, e Atena, la dea delle arti e della guerra (e, a differenza delle altre due, sempre vergine, benché anche Era avesse i suoi trucchetti).
Zeus, l’arbitro per eccellenza, è in difficoltà. Scontentare la moglie (abbondantemente cornificata), la figlia nata dalla sua testa o l’altra figlia che lo avvince nelle trame amorose?
Il saggio re degli dei si comporta da alto burocrate: vista la rogna che può portare solo guai, scarica la palla a un piccolo sottoposto, con la banale giustificazione che, per decidere quale sia la dea più bella, meglio chiedere al mortale più bello. Ovvero Paride.

E’ pur vero che secondo alcuni mitografi, dietro la mela e la seccatura della decisione, c’era proprio un piano di Zeus per rovinare Troia attraverso Paride, ma nel dubbio, tocca al mortale risolvere un problema divino... e beccarsi le conseguenze.
Così Ermes, l’araldo (il Carlo Conti della situazione) si reca da Paride, lo blandisce e lo informa dell’incarico. Ovviamente un rifiuto o una dichiarazione di incapacità a scegliere non è possibile (Paride non è un burocrate di alto livello: in quel momento fa il pastore, e non può scaricare l’arduo giudizio al suo ovino prediletto).
E qui succede ciò che si mormora succeda in ogni concorso di bellezza: il giurato cerca di approfittare delle concorrenti, e le concorrenti, lungi dallo schifarsi, anzi cercano di corrompere il giurato.
Paride se la gioca bene. Dichiarandosi abbagliato dalla bellezza delle dee, diversa per ognuna, ma splendente, chiede un supplemento di valutazione: ovvero vuol vedere le dee nude!

Cosa mica da poco: Atteone vide nuda Artemide, e la dea per punizione lo tramutò in cervo e lo fece sbranare dai suoi cani. Il fatto che Artemide non fosse nella terna delle finaliste a questo concorso, forse ci fa immaginare che più che per punire un oltraggio, Artemide volesse evitare che Atteone raccontasse qualche particolarità fisica della dea non attraente (cellulite? Gambe storte?).
Comunque le dee accettano. Non c’è in ballo l’oltraggio di un mortale che le veda nude, c’è da far schiattare le altre due per l’eternità!
E così la prima delle dee si presenta al pastorello...
sabato 6 giugno 2009
Remyths - Achille e Ulisse di E. Marica
Narra Omero di Chio che, nei suoi viaggi alla ricerca della rotta per Itaca, Ulisse giunse nelle terre dei morti, situate a occidente dove vivono i Cimmeri. Canta il cieco vate che lì incontrò l’ombra di colui che fu il grande Achille. L’ombra si lamentava della perdita della luce del sole, giungendo a dire che avrebbe preferito essere schiavo sotto la luce del sole che re nella terra dei morti.Un altro mito, al contrario, narra che, dopo la morte, Achille fu portato sull’Isola dei Beati, e lì regnò sui morti, assieme ad Elena divenuta sua sposa.
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ACHILLE ED ULISSE
- Sei alfine giunto anche tu, Odìsseo!
- Ti saluto, o prode Achille, signore dell’Isola dei Beati. Non fu su questi lidi che ti trovai, all’epoca in cui cercavo l’ombra profetica di Tiresia il Tebano, negli oscuri paesi degli occidentali Cimmeri.
- Ben è vero. Ma i mortali possono molto, sui morti e sugli immortali: il cieco di Chio vide bene, allora, quando narrò i tuoi viaggi e le tue sofferenze, ma (Zeus ti ringrazio!) qualcuno si è già indignato ai tuoi racconti e mi vuole ancora re, quale non fui che per un poco a Ftia. E il mondo buio di Ades si è aperto, e come si vuole là, tale io, qui, sono divenuto.
- Davvero singolare, forte Achille piè veloce! Sappi che nonostante i miei racconti, ora v’è qualcuno che parla male di me, sul ventre di Gaia. Triste: sofferenze per venti anni, un poco di riposo, dover ancora partire per placare l’ira dello Scuotiterra Poseidone, tornare e poi dal mare la morte, come disse Tiresia. Mai pace per Odìsseo, re per poco di Itaca. E gli uomini non tutti mi amano, nonostante ciò.
- Così è, Odìsseo. Il tuo cammino sulla terra fu più lungo del mio e più travagliato. La tua astuzia non ti evitò la sofferenza, ma spesso ne diede!
- Oh!, il vanto mio, l’intelligenza! Tanto dalla mente acuta fu Odìsseo che si inimicò il dio del mare, il potente padre dei Ciclopi, solo perché il mondo sapesse
chi avesse accecato Polifemo! Il sagace Odìsseo, che suggerì a Tindareo il modo per risolvere i problemi suoi e spopolare la terra degli Achei e la propria stessa casa! L’intricato Odìsseo, che suggerì come violare le mura di Troia che, con la presunzione di chi prevale sul nemico, dicevamo invitte, quando invece una generazione prima di là entrò Eracle il grande! E perché la gloria nostra fosse, e non oscurata dalla sua, ecco che inventammo la fola che egli era un dio, così da giustificare le sue grandi imprese. Ma il povero Aiace di Salamina spesso narrava che il padre suo Telamone (per Zeus! Un mortale di certo!), fu Telamone ad entrare per primo a Troia, tanto che il divino Eracle, così umanamente geloso, voleva ucciderlo! E se le grandi imprese di Eracle erano dovute alla sua divinità, le nostre piccole, fatte da umani, crescevano! Ma parliamo delle mie vicende, grandi e nuove, disse qualcuno. Le sirene? Le superarono gli Argonauti guidate da un infido seduttore traditore, senza patria come me. Il viaggio agli Inferi? Ma non Cerbero mi fermò il passo, come ad Orfeo e ad Eracle! Circe e Scilla? Sempre secondo fui, dietro al senza-patria Giasone. Troia l’ho detta, forse solo i Ciclopi sono a mia gloria imperitura. Per il resto non fui capace che di essere per sette anni prigioniero di una ninfa gelosa, rovinare i Feaci, devastare il paese dei Ciconi, temere l’oblio dei Lotofagi e perdere tutti i miei compagni.- E ti par poco, Odìsseo? Ma il tuo parlare mi insospettisce, troppo umile…
- Per nulla, grande Achille! Dopo la morte si riflette, e d’altronde il tuo glorioso nome è ben più elogiato del mio, lassù!
- Tu dici? Ciò è bene. Eppure, in confidenza, se altri non odono, ti dirò ciò che temo.
- Parla, amico: mai si dica che Odìsseo non accetta le confidenze di un amico.
- Allora ti dirò. Io non fui legato dal giuramento di Tindareo, ma andai a Troia per gloria. Fui grande nelle stragi, tanto da disgustare lo Xànto, amai tante donne e non ne ebbi alcuna, venni per espugnare e nulla conquistai.
Il duello mio contro Ettore ricordato per sempre? Sì, a gloria del Troiano, che gli dei amavano! Di me si dice, lo temo: “Era invulnerabile, eppure aveva anche le armi di Efesto per lui inutili, e Atena ingannò il figlio di Priamo!” E ancora: "Achille? In quel duello Achille è solo come la mano che uccide il vero eroe e poi lo strazia". Si ama Achille, forse? Si può amare? No: Ettore era l’uomo che combatteva per la patria ma non ama la guerra, che potrebbe nascondersi dietro forti mura dette impenetrabili e così godere di attimi vicino alla moglie amata e all’adorato figlio, speranza di Troia, ma scende in campo perché la città e l’onore lo vogliono, e muore. Per lui pianti finché il sole risplenderà su le sciagure umane, ma dov’è Achille, cieco cantore di Chio? Perché non abbellisti il vero, e mi mostrasti invece furente per uno sgarbo fatto dal re di re, Agamennone di Micene? Dispettoso re contro dispettoso giovane. Mi ritirai offeso come bimbo cui il padre tolga il balocco preferito, e respinsi te e Fenice, giunti alla mia tenda come pacificatori, perché non mi pregavate abbastanza. Achille è furente per la morte di Patroclo, dimentica l’offesa solo perché una più grande gli è stata fatta. Achille si impietosisce di fronte al vecchio Priamo, ricordando un padre visto poco. Achille, l’eroe senza sfumature e incapace di menzogna, tanto da dirti: “Meglio schiavo tra i vivi che re tra i morti!”. Bene, ora sono re tra i morti per davvero, e non mi pento della frase, chè mi accorsi di non aver mai vissuto. Voi mi usaste, Achei, e tu mi dannasti due volte: col giuramento maledetto dei pretendenti di Elena e con l’inganno di Sciro, o Odìsseo! E Achille che odia o ama o null’altro, ora ti odia. E l’odia del re dei morti è terribile, lo scoprirai!- Strana è la tua favella, Achille: tu scegliesti, ben lo sai. Io... io non scelsi mai, e se la mia mente fu acuta, lo fu solo per generare mali. Fui il più povero re dell’Ellade, re di un'isola di pietre e di nulla più. Fui pretendente di Elena con nessuna speranza: l’ingegno non poteva pagare il donativo al re di Sparta. Ma fu con la mia mente che comprai una sposa al mio livello, Penelope, fedele e salda come la mia terra, non splendida rosa che appassisce nel deserto, e la ebbi ideando il giuramento che tu dici di odiare.
Tu mi dici: “Mi facesti lasciare Sciro, ove travestito da femmina facevo una vita indegna e che odiavo”. Mento? Non un attimo esitasti, solo una carezza alla dolce Deidamia, già donna quando altre ancora giocano con i balocchi, e poi via a Troia, a cercare la gloria che chiedesti unita alla breve vita. A te, diedi solo il modo di avere gloria nella vita che scegliesti. Avresti voluto essere schiavo, dicesti agli Inferi: ma a te solo gli dei chiesero cosa volessi fare della tua vita. A me la imposero. Tu hai fatto la vita che hai scelto, solo tua è la colpa se sbagliasti. Ma io? Io volevo la moglie, il duro campo, la quotidiana fatica e gioia dell'educare un figlio... Navigando sul mare color del vino tornai naufrago, trovando lei sì fedele, ma vecchia, un figlio sconosciuto divenuto uomo, un regno prosciugato della ricchezza e di quelli della mia generazione, un popolo diviso. Oh! Achille! E io godetti almeno dei resti? No, lo ripeto: di nuovo in viaggio a cercare ove si ignora l’uso dl remo, per placare lo Scuotiterra. E tornare vecchio, non ritrovare il figlio, fuggito per timore di una profezia, ma trovare la morte. Cercai tanto ed in ogni luogo, Achille, e come tutti i mortali trovai solo la morte. Oh!, tu non fosti mai fatto per filosofare, e con te Chirone riuscì solo nell’insegnamento della lira, ma non vedi l’ironia? Più lottavo e più la morte si ripresentava, ancora più terribile. Fuggivo e mi seguiva. Cercavo di sconfiggerla ed il tempo mi avvicinava ad essa. E ogni volta in più l’angoscia che tutte le lotte erano inutili, che assai più facile sarebbe stato arrendersi subito.- Non ti comprendo, uomo dai tortuosi pensieri. Non avesti forse vendetta su chi ti trascinò a Troia, vendetta sui Ciclopi, e perfino sullo Scuotiterra, signore dei cavalli, non riuscì ad averti tra i suoi flutti. Sarai ricordato per questo, e non ti compiaci? La morte ed il dolore sono il Fato dei mortali: diverse sono le vie per percorrerlo, ma unica è la meta. E’ vero, rimpiango la vita, ma non la scelta: via breve, ditta, gloriosa, luminosa, faccia a faccia con tutti e su tutti vincitore...
- Meno che sul più vile di tutti!
- Motteggi, Itacense?
- Potrei, di fronte al mio nuovo re per l’eterno? No, volevo solo ricordare quanto più tortuoso di me sia il destino... Lasciamo discorsi inutili, più non contano. Ognuno ebbe ciò che gli toccò, e sarà ricordato per ciò che è stato.
- Questo è certo. E non disperare, Odìsseo: mi hai convinto che nessuna ragione vi è perché io ti odi, come fa e farà in eterno mio cugino Aiace. Disse che non ti aveva parlato allora, nelle terre dei Cimmeri, non per lo sdegno, ma per il timore della tua parola. Ma ormai siamo tutti morti, e le dispute dei vivi sono vane. Io sono il re e vi farò incontrare: e come persuadesti me della falsità del mio odio, così anche lui presto non sarà più irato. E tutti insieme ricorderemo ciò che ci ha resi immortali nella mente degli uomini.
- Così sia. E te ne ringrazio, sire.
- Suvvia, Achille è il mio nome. Sono re, ma tranne che in questo piccolo temporale, l’amicizia di un tempo resta ancora.
- Il mio spirito è gioioso di ciò. Ti omaggio.
(Achille si allontana, e lo spirito di Ulisse ride malizioso)

- La gloria fra gli uomini? In ogni caso siamo morti. E’ vero, modificano il nostro stato, ma non lo faranno per sempre. Presto ci oblieranno, o ci vedranno fissi nel tempo... Ma se il ricordare il passato e la luce del sole bastano a chi non fu altro che un guerriero, questo non è il destino di Odìsseo! La tua forza, la tua velocità, la tua invulnerabilità ormai sono nulla tra i morti, Achille, e solo il vuoto titolo di re ti fa essere felice qui! Ma la mia mente è intatta e salda, e io non sono uno che sta a lungo inattivo. Vi è un regno, effimero quanto vuoi, da prendere, e chissà che non vi sia anche un modo per uscire da qui! Non v’è forse riuscito Orfeo? Le mie parole sapranno essere ben più potenti della sua lira... Orsù, basta! Arrivano Achille, Menelao... e perfino Aiace! Mostra il tuo sorriso migliore, Odìsseo, ed iniziamo a pensare, a progettare, a manipolare... a vivere ancora!
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domenica 31 maggio 2009
REMYTHS - Titone di E. Marica
Narra Omero che Eos, l’Aurora, innamoratasi del bellissimo principe troiano Titone, lo rapì e lo volle sposare. Presa dall’amore, la dea chiese a Zeus l’immortalità per l'amato, e il cupotonante signore dell’Olimpo gliela concesse. Ma Eos dimenticò di chiedere per lui anche l’eterna giovinezza. Così, mentre l’Aurora dalle dita rosate rimaneva perennemente uguale, Titone invecchiò sempre di più senza poter morire, rattrappendosi e raggrinzendosi, fino a dover essere messo, come un bambino, in un cestino di vimini. Alla fine Eos lo tramutò in cicala.
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TITONE
"... Ed Eracle eresse le sue colonne
Per segnalare il limite
Oltre il quale i mortali non andassero..."
Errarono poeti e prosatori, il vecchio di Chio per una volta fu cieco anche con la mente. Empi, empi coloro che in tutta l’Ellade vagano cantando gli dei come immortali sì, potenti sì, ma uomini dentro. Stolti! Non ha forse Zeus padre inghiottito la titanide Metis, la prudenza? Non è Atena Vergine la più saggia creatura d’ogni dove?
E allora anche voi mortali capirete che l’assurda Mània, la follia, prese coloro che dicono falsità: tali sono amori adulterini, lazzi, risa, crudeltà degli Olimpi sommi. E falso è ciò che si narra della storia mia.
Eos rododactila mi vide, mi volle e mi prese. L’amore divino mi investì con la luce sua: quale mortale può, infatti, resistere al fascino e alla splendente potenza di una dea innamorata?
Ci unimmo, notte dopo notte, sull’aurea coppa che l’amante mia ed il fratello suo Helios, che tutto vede, riporta dall’estremo Occidente al paese degli Etìopi. Notti dopo notti l’amore, ma anche la paura e la maledizione di Chronos che mi attanagliava, ed il vigore della giovinezza che spariva, lento ma inesorabile come i granelli di sabbia della grande clessidra del padre di Tonante. Eos, dal mantello color del croco, a lungo osservò sconcertata ciò che non capiva, perché estraneo alla sua natura di immortale sempre giovane. Oh!, Omero falso, l’avessi vista allora! Avresti capito che uomini e dei sono diversi fuori e nell’animo, che sangue ed icore non si mescolano mai! L’immortalità è un sorso diluito di acqua del Lete: giorno dopo giorno, alba dopo alba, goccia dopo goccia, fa scordare che ci possa essere altro che l’eterno.
Ma gli dei non sono stolti.
Eos mi amò, un tempo? Non so. Dei e uomini mortali sono differenti nel pensare e l’amore è diverso per loro: amore non è soffrire, amore non è la tensione all’amato, che sola dà sapore all’attimo in cui lo si raggiunge.
Essi possono, essi hanno: la brama è d’un istante, poi è appagata. Chi parlò di Dafne e di Castalia mai non vide il fulgore di Febo Apollo, e solo Idas l’orgoglioso bugiardo poteva affermare che Marpessa preferì lui al dio: chi raccoglie le briciole della tavola del sazio non sempre ammette d’aver mendicato.
Ah! Fulgente poco meno di Febo, eppure amante anch’ella, Eos! E potente, e gelosa! Voleva, aveva e lasciava, eppure non dava le briciole neppure ai cani, e ben lo sa Procri. Divina, ella non accettava che gli amanti suoi li rubasse alcuno, foss’anche il filo spezzato di Atropo, l’inevitabile.
Zeus tonante l’udì, e accettò di dar l’ambrosia a me pure, figlio di re ma mortale anch’io. E le mie membra tornarono forti e vigorose, e le notti d’amore lunghe e gaudiose come quelle d’un tempo. Mortali invidiosi, i poeti, che mutano il vero con tortuose menti per fini da poco, dissero che ella scordò di dare a me, l’amato, giovinezza eterna, e ch’io restai preda di Ghèras, l’orrida vecchiaia, della nera Notte figlia. Sciocchi empi! Tali cose avrebbe potuto scordare il primo fra gli Olimpi? O se anche fosse stato, è tanto debole Zeus Salvatore da non poter restituire la gioventù in seguito? Ciò che si recita fatto da una strega barbara nipote d’Iperione (e tutti gli adoranti di Ovidio lo credono) è impossibile al sommo padre?
No, erraste, voi tutti mortali. Ciò che tanto affascinò pittori e scultori è solo filosofica apparenza e sciocco insegnamento morale costruito su tristi menzogne. Fui e sono giovane.
D’aspetto almeno.
Ma oggi Momo ha sussurrato nel mio orecchio un dubbio: che nella mia mente io sia tale e quale mi descrissero i mortali, vecchio e grinzoso.
Mi sussurra che un poeta non coglie l’aspetto, ma la sostanza, che il pittore oltre un singolo volto ritrae l’assoluto. Che l’uomo non è fatto per l’immortalità, che la sua mente si ferma ad un certo punto, esita, si volta, si gira su sé stessa, si chiude.
Vecchia.
E che Thanatos è la pietà degli dei e la salvezza dell’uomo.
Ma io non credo ai suoi beffardi sussurri, non voglio crederci. Un uomo non può amare una prigione per quanto essa sia splendida, non può desiderarla al punto da rinnegare sé stesso. E l’Olimpo non è per me prigione, e avere l’immortalità, ciò che ogni uomo brama, è sufficiente ricompensa per un amore. E se Eos non viene più a trovarmi, chè il non avere più rivali fece scemare la sua brama, io la attendo sempre.
Ho l’eternità per farlo.
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TITONE
"... Ed Eracle eresse le sue colonne
Per segnalare il limite
Oltre il quale i mortali non andassero..."
Errarono poeti e prosatori, il vecchio di Chio per una volta fu cieco anche con la mente. Empi, empi coloro che in tutta l’Ellade vagano cantando gli dei come immortali sì, potenti sì, ma uomini dentro. Stolti! Non ha forse Zeus padre inghiottito la titanide Metis, la prudenza? Non è Atena Vergine la più saggia creatura d’ogni dove?
E allora anche voi mortali capirete che l’assurda Mània, la follia, prese coloro che dicono falsità: tali sono amori adulterini, lazzi, risa, crudeltà degli Olimpi sommi. E falso è ciò che si narra della storia mia.
Eos rododactila mi vide, mi volle e mi prese. L’amore divino mi investì con la luce sua: quale mortale può, infatti, resistere al fascino e alla splendente potenza di una dea innamorata?
Ci unimmo, notte dopo notte, sull’aurea coppa che l’amante mia ed il fratello suo Helios, che tutto vede, riporta dall’estremo Occidente al paese degli Etìopi. Notti dopo notti l’amore, ma anche la paura e la maledizione di Chronos che mi attanagliava, ed il vigore della giovinezza che spariva, lento ma inesorabile come i granelli di sabbia della grande clessidra del padre di Tonante. Eos, dal mantello color del croco, a lungo osservò sconcertata ciò che non capiva, perché estraneo alla sua natura di immortale sempre giovane. Oh!, Omero falso, l’avessi vista allora! Avresti capito che uomini e dei sono diversi fuori e nell’animo, che sangue ed icore non si mescolano mai! L’immortalità è un sorso diluito di acqua del Lete: giorno dopo giorno, alba dopo alba, goccia dopo goccia, fa scordare che ci possa essere altro che l’eterno.
Ma gli dei non sono stolti.
Eos mi amò, un tempo? Non so. Dei e uomini mortali sono differenti nel pensare e l’amore è diverso per loro: amore non è soffrire, amore non è la tensione all’amato, che sola dà sapore all’attimo in cui lo si raggiunge.
Essi possono, essi hanno: la brama è d’un istante, poi è appagata. Chi parlò di Dafne e di Castalia mai non vide il fulgore di Febo Apollo, e solo Idas l’orgoglioso bugiardo poteva affermare che Marpessa preferì lui al dio: chi raccoglie le briciole della tavola del sazio non sempre ammette d’aver mendicato.Ah! Fulgente poco meno di Febo, eppure amante anch’ella, Eos! E potente, e gelosa! Voleva, aveva e lasciava, eppure non dava le briciole neppure ai cani, e ben lo sa Procri. Divina, ella non accettava che gli amanti suoi li rubasse alcuno, foss’anche il filo spezzato di Atropo, l’inevitabile.
Zeus tonante l’udì, e accettò di dar l’ambrosia a me pure, figlio di re ma mortale anch’io. E le mie membra tornarono forti e vigorose, e le notti d’amore lunghe e gaudiose come quelle d’un tempo. Mortali invidiosi, i poeti, che mutano il vero con tortuose menti per fini da poco, dissero che ella scordò di dare a me, l’amato, giovinezza eterna, e ch’io restai preda di Ghèras, l’orrida vecchiaia, della nera Notte figlia. Sciocchi empi! Tali cose avrebbe potuto scordare il primo fra gli Olimpi? O se anche fosse stato, è tanto debole Zeus Salvatore da non poter restituire la gioventù in seguito? Ciò che si recita fatto da una strega barbara nipote d’Iperione (e tutti gli adoranti di Ovidio lo credono) è impossibile al sommo padre?
No, erraste, voi tutti mortali. Ciò che tanto affascinò pittori e scultori è solo filosofica apparenza e sciocco insegnamento morale costruito su tristi menzogne. Fui e sono giovane.
D’aspetto almeno.
Ma oggi Momo ha sussurrato nel mio orecchio un dubbio: che nella mia mente io sia tale e quale mi descrissero i mortali, vecchio e grinzoso.
Mi sussurra che un poeta non coglie l’aspetto, ma la sostanza, che il pittore oltre un singolo volto ritrae l’assoluto. Che l’uomo non è fatto per l’immortalità, che la sua mente si ferma ad un certo punto, esita, si volta, si gira su sé stessa, si chiude.Vecchia.
E che Thanatos è la pietà degli dei e la salvezza dell’uomo.
Ma io non credo ai suoi beffardi sussurri, non voglio crederci. Un uomo non può amare una prigione per quanto essa sia splendida, non può desiderarla al punto da rinnegare sé stesso. E l’Olimpo non è per me prigione, e avere l’immortalità, ciò che ogni uomo brama, è sufficiente ricompensa per un amore. E se Eos non viene più a trovarmi, chè il non avere più rivali fece scemare la sua brama, io la attendo sempre.
Ho l’eternità per farlo.
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