Amore e
guerra, morte e cura
Eh, già! Per
gli immortali il tempo non sembra passare mai… ma per noi mortali a cui è
destinato dormire una sola lunga notte il tremendo tempo scorre eccome!
In questo
blog non metteremo alla prova i calcoli Babilonesi, ma i mesi che scorrono non
ci hanno tolti dalla mente le pendenze che abbiamo in attesa del Ragnarokkr
(addirittura!)
E così,
eccoci di nuovo su Vinicio Capossela e sui suoi canti mitici per il capro… o
per il Ciclope.
Oggi
affrontiamo “La lancia del Pelide”, sempre tratto dal repertorio mitologico
(classico e moderno) raccolto nell’album “Marinai, profeti e balene”.
La lancia del Pelide
Magico dono
Per un verso ferisce, per l'altro guarisce
Lei sola lenisce le ferite che infligge.
Questo
l’incipit. Il Pelide piè veloce, per chi non lo sapesse, è Achille, figlio di
Peleo e Teti.
La sua
gloriosa lancia, pesante e dalla punta di bronzo, dono di Chirone a Peleo, è
ricordata nel mito di Telefo, l’Eraclide re di Misia.
Si narra che
la flotta degli Achei era alla fonda in Aulide, pronta a salpare verso Troia
per riprendere la fedifraga Elena dal talamo di Paride. Ma in quei tempi che
videro gli albori della navigazione anche nello stretto Egeo, nessuno conosceva
esattamente la rotta.
Così le
mille navi partirono non tanto alla cieca, poiché si sapeva che Troia si
trovava a Nord-est, ma senza punti di riferimento sicuro. Accadde pertanto che
quando si sbarcò in terra asiatica, i capi degli Achei ritennero di essere
giunti nella piana dello Scamandro.
Ahiloro, si
sbagliavano. [1]
Gli abitanti
del luogo, che erano i Misi, collocati più a Sud nella penisola anatolica,
appena videro i minacciosi invasori, corsero ad avvertire il loro re, Telefo,
figlio di Eracle ed Auge, il figlio che, secondo Pausania, più assomigliava al glorioso
padre.
Lo scontro
fu inevitabile: si dice che i Greci fecero una tale strage che il sangue dei
Misi colorò di rosso le acque del fiume Caico.
Nella
mischia Telefo uccise Tersandro, il nipote di Edipo re di Tebe, perse il suo
scudo a opera di Protesilao e poi affrontò il giovane Achille. La battaglia fu
epica, ed è un peccato che abbiamo perso i Canti Cipri che ce la narravano: sta
di fatto che il Pelide era irresistibile, e l’Eraclide iniziò ad arretrare. E
qui intervenne l’ira e la vendetta di un dio: si dice che Telefo avesse negato
alcuni onori a Dioniso, e la permalosa divinità allora fece sì che un tralcio
di vite facesse inciampare il re di Misia. Telefo cadde, e Achille ne
approfittò per colpirlo alla coscia con la sua lancia.
Telefo ebbe
la forza di estrarre la lancia e darsi alla fuga. Nel frattempo fu raggiunta
una tregua: gli Achei mandarono una delegazione guidata da Tlepolemo, altro
figlio di Eracle, cui fu rivelato l’errore di destinazione. Così i Greci
ripartirono e tornarono in Aulide per organizzare una nuova spedizione (che,
secondo alcuni, avvenne non prima di altri dieci anni).
Ma la ferita
di Telefo non guariva. Recatosi a Delfi, l’oracolo del dio Apollo gli disse che
solo chi l’aveva ferito avrebbe potuto farlo. Telefo si travestì da mendicante e
prese in ostaggio Oreste, il figlio in fasce di Agamennone e minacciò di
ucciderlo se Achille non l’avesse guarito [2].
I Greci
erano indecisi sul da farsi, anche perché l’indovino Calcante aveva profetizzato
che solo un Eraclide avrebbe saputo guidarli fino a Troia: così si raggiunse un
accordo, Telefo depose Oreste e Achille fu convocato.
Su
suggerimento dello stesso Calcante, Achille grattò un po’ di ruggine della sua
lancia sulla ferita di Telefo, e questa miracolosamente guarì [3]. In cambio
Telefo donò ad Achille alcuni cavalli (ma non Balio e Xanto, dono al figlio di
Peleo, che a sua volta li aveva ricevuti da Poseidone come dono di nozze) e
guidò la flotta greca sulle spiagge di Troia.
In seguito,
benché fosse imparentato con Priamo (ne aveva sposato la figlia Astioche),
Telefo rimase neutrale nel famoso assedio.
Così sei tu,
Mia bella tu
Tu che puoi uccidermi e farmi risorgere
Non vale altra cura per le ferite che procuri tu..
E qui il
nostro mitiko Vinicio attualizza, come è buono e giusto il mito.
Da sempre l’effetto
dell’Amore è paragonato a quello di un incendio o preferibilmente a quello della
ferita di un’arma, anche se di solito si tratta dell’arco di Eros \Cupido, come
accade, a puro titolo di esempio, quando Petrarca, in Avea i capei d’oro a l’aura sparsi dice
Uno spirto celeste, un vivo sole
fu quel ch'i' vidi, e se non fosse or tale,
piaga per allentar d'arco non sana.
Ma se
andiamo più indietro nel tempo, troveremo che già Luciano nel suo dialogo Nigrino propone che le donne guariscano
gli innamorati come Telefo lo fu da Achille; e in seguito l'Antologia Palatina riporta
due epigrammi, uno di Macedonio di Tessalonica e l’altro di Paolo Silenziario,
in cui si ripete lo stesso topos. [4]
L’Amore come
forza irresistibile, che può dare gioia e insieme dolore, in quell’inevitabile intrecciarsi
di Eros e Tanathos di cui ci parlano gli psicologi.
La lancia del Pelide infuria in battaglia
Infiniti lutti adduce al suo tocco
Ma è unica a avere
Il magico dono
Di restituir la vita a chi l'ha tolta
E infatti la
lancia sembra l’arma preferita da Achille, più che la spada, per le sue stragi.
Da non dimenticare che se Efesto fece una nuova armatura al Pelide su richiesta
di Teti, assieme all’elmo, agli schinieri e soprattutto al famosissimo scudo (e
vi rimandiamo QUI per alcuni significati nascosti nella unga ekphrasis dell’Iliade sulle descrizioni
dello scudo), la lancia resta quella originale.
E proprio con quella lancia, il “faggio greve”, il Pelide uccide Ettore (Iliade Canto XXII).
E proprio con quella lancia, il “faggio greve”, il Pelide uccide Ettore (Iliade Canto XXII).
Così sei tu,
Mia bella tu
Tu che puoi uccidermi o farmi risorgere
Come quella fenice è la ferita che procuri tu
La citazione
della fenice ci porta a un altro mito di morte e rinascita attraverso il fuoco.
I sacerdoti
di On (Eliopoli) parlavano del favoloso uccello Bennu, che i greci
reinterpretarono come simbolo della morte e della resurrezione: si diceva l’araba
fenice, dopo aver vissuto per cinquecento anni, quando sentiva arrivare la
morte, si faceva un nido in cime a una quercia (o a una palma), che arricchiva
di preziose essenze, vi si sdraiava sopra e lasciava che i raggi del sole le
accendessero, morendo consumata nell’incendio successivo.
Ma dalle sue
ceneri emergeva una piccola larva che nel giro di tre giorni (come Apollo)
diveniva adulta e la nuova fenice volava fino ad On e lì si poggiava sull’albero
sacro cantando al sole nascente.
Guariscimi ora
Tu sola hai la cura
Non vale che cerchi altrove consiglio e premura
Guariscimi ora
Tu che ne hai la cura
Il tuo amore è una lancia appuntita
Che può toglier la vita
Guariscimi amore,
Dal male d'amore
Guariscimi ora,
Tu sola hai la cura
Ahhhh....
Tornerò a vita per te
Tornerà vita per noi..
Guariscimi amore
Dal male d'amore
Guariscimi ora
Tu che ne hai la cura
Quale è il
segreto della Lancia di Achille e dell’amore? Entrambi sono manifestazioni di
una delle due caratteristiche della magia così come identificate, tra gli
altri, da Sir James Frazer.
All’interno
della magia simpatica, esistono due categorie: la magia omeopatica (il simile
genera il simile) e quella contagiosa (l’effetto di un contatto reciproco
agisce a distanza).
Così come ricorda
Graves a proposito del mito di Telefo [5] con l’episodio della ruggine curativa
della ferita provocata dallo stesso oggetto da cui nasce la ruggine, si
tratterebbe di un esempio di magia omeopatica (“il simile cura il simile”). Insomma:
la ruggine, in quanto “malattia” del metallo della lancia, può curare la
malattia provocata dalla lancia stessa.
[1] Ne I Miti Greci (160.8) Robert Graves ipotizza
che fossero stati confusi dall’Afrodite Troiana, così come la dea sabotò il
rientro degli Achei dopo la presa di Ilio.
[2] La cosa destò
grande scandalo quando Euripide nel suo Telefo
portò in scena il re vestito di stracci, generando le feroci parodie di
Aristofane (negli Acarnesi e nelle Tesmoforiazuse)
[3] Plinio
il Vecchio, invece, razionalizza il mito dicendo che la guarigione fu fatta
grazie a una pianta curativa che gli era stata indicata a suo tempo dal maestro
Chirone. Dall’eroe la pianta prese il nome di Achillea millefolium. Sulla
persistenza delle ferite che non curano si veda anche il mito del Re Pescatore
nel ciclo Brettone.
[4] Tra le
riprese successive, seppure con significati diversi, segnaliamo quella di (Inferno XXXI, 4-6 dove il poeta nota che
prima le ammonizioni e poi i conforti di Virgilio sono simili nel loro effetto
alla leggendaria lancia del Pelide), Chaucher (I Racconti di Canterbury, Il
racconto dello scudiero, dove però i poteri vengono attribuiti alla SPADA
di Achille, e non alla sua lancia), Shakespeare (il messer Crollalanza ne parla
in Enrico VI, parte II, Atto V scena I, dove la duplicità di
effetti è riferita alla “fronte” ovvero alla mente del personaggio) e Goethe
(Torquato Tasso, Atto IV scena 4)
[5] I miti greci 160.9. Qui si ricorda anche
il mito di Melampo (vedi op. cit. , 72.e),
che curò l’impotenza di Ificlo capendo che era legata a un trauma giovanile: il
ragazzo era rimasto terrorizzato vedendo il padre avanzare verso di lui con il
coltello sporco del sangue dei sacrifici e aveva temuto che volesse sacrificare
anche lui e ciò aveva causato l’impotenza; soltanto quando bevve un po’ d’acqua
con la ruggine del coltello guarì. Che dietro l’episodio di Ificlo si possa nascondere
una metamorfosi del rito di sacrificio del primogenito non è stato notato da
Graves, solitamente molto attento a episodi come questo.
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