Nuove riflessioni sul mito partendo da Zanna Bianca...
Ancora una volta ciò che Jack London scrive sul rapporto tra lupo e uomo è una metafora del rapporto tra l’uomo e i suoi dei.
Sempre nel capitolo I della parte III, Zanna Bianca è al termine del suo primo periodo di esperienza nel villaggio indiano. Ha appena scoperto il fuoco e il dolore che il fuoco può dare, e si trova a disagio in un villaggio dove ci sono troppi cani ostili (Zanna Bianca aveva vissuto praticamente isolato nella sua infanzia) e la madre non c’è più.
“Continui cambiamenti di intensità e di tono gli davano sui nervi, lo rendevano nervoso, agitato e preoccupato della perpetua imminenza di qualche imprevisto avvenimento. Lui guardava l’animale uomo che veniva, andava, si muoveva. Nel modo distante con cui gli uomini si rivolgono agli dei che hanno cerato, così Zanna Bianca guardava l’animale uomo davanti a sé. Nella sua comprensione essi erano operatori di meraviglie come gli dei lo sono per gli uomini. Essi erano creature dominatrici, dotate di ogni genere di sconosciuti e incredibili poteri, padroni dei vivi e dei non vivi: facevano obbedire quello che si muove, davano il movimento alle cose immobili, creando la vita, la mordente vita color del sole, dal muschio secco e dal legno. Erano creatori del fuoco. Erano dei.”
La condizione di Zanna Bianca è quella dell’uomo sulla terra, vista come luogo di dolore, di pericolo continuo. Un luogo in cui l’uomo deve interpretare i segni, gli omina, che gli dei mandano: puoi avere cibo, non entrare in questi luoghi, soffrirai, morirai.
Gli uomini sono gli dei per i cani e i lupi, lo ripetiamo, per la profonda differenza di potere tra le due specie.
Potremmo obiettare che nella logica di London manca un elemento: i lupi possono sbranare gli uomini, ucciderli, gli uomini non possono fare lo stesso con gli dei.
Senza sbilanciarsi nel “Dio è morto” proclamato nel XX secolo, ciò non è sempre stato vero. Vogliamo dimenticare episodi di statue degli dei incatenate e portate altrove, come la Giunone di Veio? O dimentichiamo che il rito e la magia, troppo spesso considerati differenti con sottigliezze sofistiche, mirano a “costringere” un dio a fare qualcosa che l’uomo vuole?
La “religio” è un patto, non solo tra gli uomini, ma anche tra gli uomini e il dio. Il “dio degli eserciti” sceglie un popolo, e quel popolo accetta i termini del contratto. Gli dei combattono attraverso i propri fedeli, dicevano i mesopotamici, e potevano con loro vincere o sparire.
Gli uomini uccidono i loro dei in senso letterale (Cristo) o metaforico, rinunciando a loro e adorando altri dei.
E infine, ecco una differenza tra lupo e uomo (parte III, capitolo II): “All’uomo è toccato spesso il dolore di vedere i propri dei abbattuti e i propri altari infranti, ma al lupo e al cane selvaggio che sono venuti ad accucciarsi ai piedi dell’uomo questo dolore non è mai toccato.
“Diversi dall'uomo - i cui dei sono invisibili e ipotetici, vapori e nebbie fantastiche che sfuggono al controllo della realtà, erranti fantasmi di una bontà e di un potere desiderati, intangibili trasposizioni di sé nel regno dello spirito - il lupo e il cane selvaggio che sono venuti accanto al fuoco a trovare i loro dei in carne ed ossa, solidi al tatto, padroni dello spazio terrestre e capaci di realizzare la loro esistenza e i loro compiti, non hanno bisogno della fede per credere in divinità cosiffatte, nessuno sforzo della volontà può indurre alla incredulità di tali dei.”
Proprio la concretezza di queste divinità, giustificata dalla concretezza dell’animale-lupo rispetto alle capacità di astrazione dell’animale-uomo, si può rovesciare: l’uomo ha bisogno di un dio astratto, che abbia meno possibilità di deludere il fedele.
La “religio”, il patto, in questo caso appare a senso unico (dal fedele verso il dio), proprio per l’esigenza dell’uomo di avere una costanza nel suo rapporto col dio: meglio aspirare a qualcosa di lontano, intangibile, con cui è difficile se non impossibile comunicare, ma che proprio per questa distanza e questa incomunicabilità non può ferire, che affrontare la quotidianità, il contatto, la delusione.
Il lupo sembra sicuro: tocca i suo dei.
Ma paradossalmente, l’ultima frase di London che abbiamo citato, sarà rovesciata proprio dallo sviluppo del romanzo.
Al posto della fede, il lupo dovrà affidarsi a qualcosa di altrettanto astratto come l’amore.
martedì 23 giugno 2009
domenica 21 giugno 2009
Tutti figli di Evemero - Bestie, uomini e dei: Jack London e l’origine del mito 1
Ok, forse la rubrica non è quella giusta... ma la lettura (a quasi quarant’anni!) di un classico della letteratura per ragazzi come Zanna Bianca, la scoperta di un GRANDE romanzo, spiazza un po’. E spiazza ancora di più il linguaggio “mitologico” usato dal romanziere americano in gran parte delle sue descrizioni del rapporto tra il “lupo per tre quarti” Zanna Bianca e l’animale-uomo.
E quindi, “scroccando” il titolo a Ossendowsky, ci apprestiamo a diffondere tra le vaste masse dei nostri lettori alcuni passi, che mostrano curiose rispondenze con quella che potrebbe definirsi come una interpretazione evemeristica della divinità.
La storia è presto detta: nato da un lupo canadese e da una mezzosangue, Zanna Bianca incontra diversi tipi di uomini, che diventano suoi padroni. Ma il rapporto tra le due parti, l’animale-lupo e l’animale-uomo, si connota subito come una relazione di fedele-dio.
Oltre a vari titoli di capitoli (“La pista degli dei” parte III, cap. IV; “Il dio pazzo”, parte IV, cap. II; “La proprietà del dio”, parte V, cap. III), le percezioni di Zanna Bianca, la sua “razionalizzazione” animale del suo rapporto con l’uomo, sono descritte col linguaggio del mito.
(I passi sono tratti dall’edizione Giunti 2004, tradotta da Anna Banti).
All’arrivo al villaggio indiano che costituisce la sua prima esperienza con l’uomo (parte III, capitolo I), Zanna Bianca sperimenta il potere del dolore che gli uomini possono dare ai suoi simili (con pietre e bastoni), e intravede un certo senso di giustizia nelle loro azioni (“sentì la giustizia dell’animale uomo e lo riconobbe per quello che era: creatore di leggi ed esecutore di leggi”), ma soprattutto percepisce la profonda differenza tra lui e gli uomini: “a differenza di qualunque animale da lui incontrato, gli uomini non mordevano né artigliavano ma esercitavano la loro forza vitale col potere delle cose morte”.
E’ la svolta: “nella sua [di Zanna Bianca, ndr] mente questo potere era insolito, inconcepibile, innaturale, simile a quello di un dio. Per la sua stessa natura Zanna Bianca non poteva sapere nulla sugli dei: tutt’al più poteva sapere cose che erano al di là della conoscenza; ma la meraviglia e il rispetto che aveva per questi animali umani somigliava al rispetto che un uomo poteva provare alla vista di una qualche creatura celestiale che dalla cima di una montagna scagliasse fulmini con ambo le mani su un mondo attonito”.
E’ facile leggere nello sviluppo delle percezioni del lupo un riflesso di un’idea che si applica agli uomini (non è sempre vero che le opere letterarie che si occupano di “non uomini” servono in realtà per parlare agli uomini degli uomini stessi?).
Innanzitutto il dolore, e il mistero del dolore. L’uomo è immerso nel dolore, il dolore della privazione o dello stimolo fisico, un sentire tanto negativo per lui da richiedere una sua spiegazione.
E le fedi religiose, con i loro miti fanno per lo più proprio questo: spiegano il dolore (o l’assenza di esso per alcuni privilegiati).
Il secondo passo di questa razionalizzazione è infatti individuare una giustizia nascosta nel dolore: l’uomo avrebbe potuto essere felice, ma ha fatto qualcosa che ha portato il dolore. Ha mangiato il frutto proibito, ha aperto il vaso di Pandora, ha ucciso.
Il dolore non è senza senso: il dolore è la “giusta ricompensa” per qualcosa fatta dal singolo uomo o dall’intera specie umana. Se si rispetta la legge del dio (i suoi riti, la sua etica) si può evitare il dolore.
Ma chi è in grado di punire con una giustizia assoluta, chi è l’unico che davvero può creare le leggi? Solo chi ha il controllo di tutto ciò che esiste, ciò che è al di là dei poteri della creatura limitata che prova il dolore e ne cerca la spiegazione.
Gli uomini per Zanna Bianca possono “usare” e “modificare” a proprio piacimento ciò che è al di là delle possibilità per il lupo: il legno, le pietre.
Per l'uomo, chi sa gestire le forze più terribili della natura (non una torcia, ma il Fuoco; non il mattone, ma il Terremoto; non una nave, ma le Onde del Mare) è talmente superiore a lui, che può essere solo un dio.
E quindi, “scroccando” il titolo a Ossendowsky, ci apprestiamo a diffondere tra le vaste masse dei nostri lettori alcuni passi, che mostrano curiose rispondenze con quella che potrebbe definirsi come una interpretazione evemeristica della divinità.
La storia è presto detta: nato da un lupo canadese e da una mezzosangue, Zanna Bianca incontra diversi tipi di uomini, che diventano suoi padroni. Ma il rapporto tra le due parti, l’animale-lupo e l’animale-uomo, si connota subito come una relazione di fedele-dio.
Oltre a vari titoli di capitoli (“La pista degli dei” parte III, cap. IV; “Il dio pazzo”, parte IV, cap. II; “La proprietà del dio”, parte V, cap. III), le percezioni di Zanna Bianca, la sua “razionalizzazione” animale del suo rapporto con l’uomo, sono descritte col linguaggio del mito.
(I passi sono tratti dall’edizione Giunti 2004, tradotta da Anna Banti).
All’arrivo al villaggio indiano che costituisce la sua prima esperienza con l’uomo (parte III, capitolo I), Zanna Bianca sperimenta il potere del dolore che gli uomini possono dare ai suoi simili (con pietre e bastoni), e intravede un certo senso di giustizia nelle loro azioni (“sentì la giustizia dell’animale uomo e lo riconobbe per quello che era: creatore di leggi ed esecutore di leggi”), ma soprattutto percepisce la profonda differenza tra lui e gli uomini: “a differenza di qualunque animale da lui incontrato, gli uomini non mordevano né artigliavano ma esercitavano la loro forza vitale col potere delle cose morte”.
E’ la svolta: “nella sua [di Zanna Bianca, ndr] mente questo potere era insolito, inconcepibile, innaturale, simile a quello di un dio. Per la sua stessa natura Zanna Bianca non poteva sapere nulla sugli dei: tutt’al più poteva sapere cose che erano al di là della conoscenza; ma la meraviglia e il rispetto che aveva per questi animali umani somigliava al rispetto che un uomo poteva provare alla vista di una qualche creatura celestiale che dalla cima di una montagna scagliasse fulmini con ambo le mani su un mondo attonito”.
E’ facile leggere nello sviluppo delle percezioni del lupo un riflesso di un’idea che si applica agli uomini (non è sempre vero che le opere letterarie che si occupano di “non uomini” servono in realtà per parlare agli uomini degli uomini stessi?).
Innanzitutto il dolore, e il mistero del dolore. L’uomo è immerso nel dolore, il dolore della privazione o dello stimolo fisico, un sentire tanto negativo per lui da richiedere una sua spiegazione.
E le fedi religiose, con i loro miti fanno per lo più proprio questo: spiegano il dolore (o l’assenza di esso per alcuni privilegiati).
Il secondo passo di questa razionalizzazione è infatti individuare una giustizia nascosta nel dolore: l’uomo avrebbe potuto essere felice, ma ha fatto qualcosa che ha portato il dolore. Ha mangiato il frutto proibito, ha aperto il vaso di Pandora, ha ucciso.
Il dolore non è senza senso: il dolore è la “giusta ricompensa” per qualcosa fatta dal singolo uomo o dall’intera specie umana. Se si rispetta la legge del dio (i suoi riti, la sua etica) si può evitare il dolore.
Ma chi è in grado di punire con una giustizia assoluta, chi è l’unico che davvero può creare le leggi? Solo chi ha il controllo di tutto ciò che esiste, ciò che è al di là dei poteri della creatura limitata che prova il dolore e ne cerca la spiegazione.
Gli uomini per Zanna Bianca possono “usare” e “modificare” a proprio piacimento ciò che è al di là delle possibilità per il lupo: il legno, le pietre.
Per l'uomo, chi sa gestire le forze più terribili della natura (non una torcia, ma il Fuoco; non il mattone, ma il Terremoto; non una nave, ma le Onde del Mare) è talmente superiore a lui, che può essere solo un dio.
martedì 16 giugno 2009
GO(D)Ssip - Concorsi di bellezza divina 3
Se il Giudizio di Paride è il concorso mitico di bellezza femminile più conosciuto, non tutti sanno che c’è stato anche un concorso di bellezza maschile.
Per di più feticista.
Dalla calda Grecia ci dobbiamo spostare al freddo Nord, nel Valhalla. Qui Odino e Loki ne avevano combinato un’altra delle loro uccidendo il gigante Thjazzi.
Certo, questo non era stato un galantuomo (aveva rapito Idunn, la custode delle mele d’oro dell’eterna giovinezza… toh! Mele d’oro anche qui!), ma in fondo era un gigante!
Sta di fatto che Skadhi la montanara, figlia di Thjazzi, venne alle porte di Asgard
a chiedere soddisfazione. Gli dei avevano giocato sporco, quindi accettarono di dare un guidrigildo alla Gigantessa: non potevano restituire a Skadhi il padre, quindi le avrebbero dato in cambio un marito (l’altra condizione era quella di farla ridere, e se ne sarebbe occupato Loki… ma questa è un’altra storia). In più Odino gettò gli occhi di Thjazzi (due gemme) nel cielo, tramutandoli in stelle.
Tuttavia giocarono d’astuzia: la dea non poteva scegliere il marito semplicemente nominandolo, ma avrebbe dovuto sceglierlo dopo un vero e proprio concorso di bellezza… podalico.
Proprio così: la gigantessa avrebbe potuto vedere solo i piedi e le caviglie dei “maritabili”, e avrebbe dovuto scegliere solo su quella base.
Immaginiamo quindi una sorta di palco, con una parete (o una tenda) quasi fino a terra, che nascondeva l’aspetto degli dei dalle caviglie in su, lasciando in vista solo le aulentissime estremità, e una gigantessa che si china a guardare con attenzione, esaminando alluci e talloni.
Skadhi in realtà aveva le idee chiare: voleva Baldr, il più bello, il luminoso. Quando vide piedi affusolati e candidi, non ebbe dubbi: non potevano che essere i piedi di Baldr!
...E invece erano i piedi di Njordhr, il dio del mare, uno dei Vanir adottato dagli Aesir di Asgard. I suoi bellissimi piedi erano stati modellati dallo stare immerso nel bagnasciuga ad ascoltare i gabbiani.
Ma un patto è un patto: l’insolita coppia convolò a giuste (?) nozze, e il debito di sangue fu pagato.
Ahimè! Chi scommetterebbe sulla durata delle nozze tra una montanara e un marinaio? Nessuno di noi, figurarsi agli dei!
E infatti, nonostante il parere di consulente matrimoniale, che aveva suggerito di abitare una settimana sui monti di Thrymheim (ovvero “La dimora del Clamore”) a casa di Skadhi e una settimana a Nòatùn (ovvero “Il Recinto delle Navi”) nella dimora di Njordhr, la coppia scoppiò rapidamente.
Pare che, di ritorno dalla prima settimana sui monti, Njordhr gridò: “Quanto detesto quelle colline, \ qui rimasi solo per nove notti; \ l’ululare dei lupi mi sembrò insopportabile \ in confronto al canto dei cigni”.
Ma anche Skadhi aveva da recriminare, dopo il suo primo soggiorno a Nòatùn: “Io non posso dormire sulle rive del mare, \ per lo stridere degli uccelli: \ mi sveglia quando viene dalle distese marine \ il gabbiano, ogni mattina”.
Così Skadhi tornò a i suoi monti e Njordhr restò sulle rive del suo mare.
Se dobbiamo trarre una morale da questi miti, sembra proprio che l’unica possa essere questa: dai concorsi di bellezza non viene nulla di duraturo o di positivo.
Per di più feticista.
Dalla calda Grecia ci dobbiamo spostare al freddo Nord, nel Valhalla. Qui Odino e Loki ne avevano combinato un’altra delle loro uccidendo il gigante Thjazzi.
Certo, questo non era stato un galantuomo (aveva rapito Idunn, la custode delle mele d’oro dell’eterna giovinezza… toh! Mele d’oro anche qui!), ma in fondo era un gigante!
Sta di fatto che Skadhi la montanara, figlia di Thjazzi, venne alle porte di Asgard
a chiedere soddisfazione. Gli dei avevano giocato sporco, quindi accettarono di dare un guidrigildo alla Gigantessa: non potevano restituire a Skadhi il padre, quindi le avrebbero dato in cambio un marito (l’altra condizione era quella di farla ridere, e se ne sarebbe occupato Loki… ma questa è un’altra storia). In più Odino gettò gli occhi di Thjazzi (due gemme) nel cielo, tramutandoli in stelle.
Tuttavia giocarono d’astuzia: la dea non poteva scegliere il marito semplicemente nominandolo, ma avrebbe dovuto sceglierlo dopo un vero e proprio concorso di bellezza… podalico.
Proprio così: la gigantessa avrebbe potuto vedere solo i piedi e le caviglie dei “maritabili”, e avrebbe dovuto scegliere solo su quella base.
Immaginiamo quindi una sorta di palco, con una parete (o una tenda) quasi fino a terra, che nascondeva l’aspetto degli dei dalle caviglie in su, lasciando in vista solo le aulentissime estremità, e una gigantessa che si china a guardare con attenzione, esaminando alluci e talloni.
Skadhi in realtà aveva le idee chiare: voleva Baldr, il più bello, il luminoso. Quando vide piedi affusolati e candidi, non ebbe dubbi: non potevano che essere i piedi di Baldr!
...E invece erano i piedi di Njordhr, il dio del mare, uno dei Vanir adottato dagli Aesir di Asgard. I suoi bellissimi piedi erano stati modellati dallo stare immerso nel bagnasciuga ad ascoltare i gabbiani.
Ma un patto è un patto: l’insolita coppia convolò a giuste (?) nozze, e il debito di sangue fu pagato.
Ahimè! Chi scommetterebbe sulla durata delle nozze tra una montanara e un marinaio? Nessuno di noi, figurarsi agli dei!
E infatti, nonostante il parere di consulente matrimoniale, che aveva suggerito di abitare una settimana sui monti di Thrymheim (ovvero “La dimora del Clamore”) a casa di Skadhi e una settimana a Nòatùn (ovvero “Il Recinto delle Navi”) nella dimora di Njordhr, la coppia scoppiò rapidamente.
Pare che, di ritorno dalla prima settimana sui monti, Njordhr gridò: “Quanto detesto quelle colline, \ qui rimasi solo per nove notti; \ l’ululare dei lupi mi sembrò insopportabile \ in confronto al canto dei cigni”.
Ma anche Skadhi aveva da recriminare, dopo il suo primo soggiorno a Nòatùn: “Io non posso dormire sulle rive del mare, \ per lo stridere degli uccelli: \ mi sveglia quando viene dalle distese marine \ il gabbiano, ogni mattina”.
Così Skadhi tornò a i suoi monti e Njordhr restò sulle rive del suo mare.
Se dobbiamo trarre una morale da questi miti, sembra proprio che l’unica possa essere questa: dai concorsi di bellezza non viene nulla di duraturo o di positivo.
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domenica 14 giugno 2009
GO(D)Ssip - Concorsi di bellezza divina 2
Il concorso di bellezza per eccellenza fu il Giudizio di Paride. Tre dee bellissime (Era, Atena, Afrodite), un giudice mortale (Paride, principe di Troia, in quel momento pastore), un presentatore (Ermes), un premio ambito (una mela d’oro su cui c’è la scritta “Alla più bella”).
Paride fa il furbone. Vista la situazione, chiede di valutare le dee al naturale, ovvero completamente nude: il pastorello cerca di prendere il massimo da quella strana situazione che non promette nulla di buono.
Le tre dee, invece di scandalizzarsi e trasformarlo in rospo, accettano. Sono furbette anche loro: più che punire mortali, ciascuna di loro vuole umiliare le altre due concorrenti, sbatter loro in faccia per l’eternità chi è la più bella. Poter dire: “Mi rubi questo santuario? Ma io sono più bella di te!”.
Dee molto terrestri, quindi.
Così, per ciascuna delle tre, presentarsi nuda e farsi “esaminare” dal giurato, è l’occasione per tentare la corruzione dello stesso. Cose che si vedono anche tra i mortali, insomma.
La prima a presentarsi è Era, la boopis (dagli occhi grandi come quelli di un bue... caratteristica di raffinata bellezza per i Greci). La regina degli Dei non è niente male: la sua bellezza da donna adulta ma nel pieno del suo fascino, tiene legato Zeus (benché il maritino si diletti di cornificarla appena può), e un bagno annuale nella fonte di Canato, presso Argo, le restituisce ciclicamente la verginità.
Mentre Paride esamina con cura ogni centimetro del corpo divino, la Regina degli Dei gli sussurra che se scaglierà lei, Paride sarà ricompensato con la signoria su tutta l’Asia e immense ricchezze.
Poi è la volta di Atena, la glaucopis (occhio ceruleo), forse per la prima volta senza l’elmo (Afrodite aveva insistito su questo fatto: pare che la capigliatura delle dea sempre armata non fosse in ordine). Anche questa dea non è niente male. Possiamo immaginare un fisico asciutto, temprato da mille battaglie... quel mix di femminilità e di androginia che fa impazzire tanti maschietti.
E in più la dea fa la sua corruzione: se Paride sceglierà lei, gli dice a bassa voce, la dea farà di Paride l’uomo più saggio della terra e un guerriero invincibile.
La terza è la divina Afrodite, che priva della sua famosa cintura ammaliatrice, tuttavia sfoggia la parte anatomica che la ha resa famosa come la dea Callipigia (ovvero: dal bel sedere).ma nonostante il suo fulgore, anche Afrodite tenta la corruzione: nell’esame, dice a Paride che ricchezze e regni non gli sono necessari, in quanto è figlio di Priamo re di Troia e di mezza Asia (e questo, secondo le leggende che volevano Paride abbandonato alla nascita e inconsapevole delle sue origini, deve essere stato un bel colpo di scena).
E poi promette a Paride, l’uomo più bello del mondo, l’amore della donna più bella del mondo, ovvero Elena di Sparta.
Paride tentenna. Chiedi informazioni su Elena. Risposta: “Elena, figlia di Zeus, è bionda e di carnagione delicata, perché nata da un uovo di cigno. Gli uomini hanno lottato per lei fin dalla sua più tenera infanzia, e tutti i principi della Grecia hanno chiesto la sua mano. Benché sia sposata a Menelao, io giuro che la farò innamorare di te”.
Paride non tentenna più: una gran bella figliola, la più bella del mondo, anzi! E poi far vedere a tutti che lui viene scelto a dispetto del fior fiore della Grecia...
Ovviamente Paride consegna la mela ad Afrodite, guadagnandosi la protezione della dea e, dopo poco tempo, Elena.
E, come accade in tutti i concorsi di bellezza, che fanno le escluse? Non si poteva fare ricorso al giudizio, ma vendicarsi sì. Ed essendo dee, non si limitarono a pubblicare indiscrezioni maligne sul web relative agli amorazzi di Afrodite, o all’incapacità di giudizio del giurato, ma prepararono la distruzione di Troia e di tutta la casa di Paride.
Una dea, come una donna, non prende mai bene il fatto che non apprezzino le sue grazie!
Paride fa il furbone. Vista la situazione, chiede di valutare le dee al naturale, ovvero completamente nude: il pastorello cerca di prendere il massimo da quella strana situazione che non promette nulla di buono.
Le tre dee, invece di scandalizzarsi e trasformarlo in rospo, accettano. Sono furbette anche loro: più che punire mortali, ciascuna di loro vuole umiliare le altre due concorrenti, sbatter loro in faccia per l’eternità chi è la più bella. Poter dire: “Mi rubi questo santuario? Ma io sono più bella di te!”.
Dee molto terrestri, quindi.
Così, per ciascuna delle tre, presentarsi nuda e farsi “esaminare” dal giurato, è l’occasione per tentare la corruzione dello stesso. Cose che si vedono anche tra i mortali, insomma.
La prima a presentarsi è Era, la boopis (dagli occhi grandi come quelli di un bue... caratteristica di raffinata bellezza per i Greci). La regina degli Dei non è niente male: la sua bellezza da donna adulta ma nel pieno del suo fascino, tiene legato Zeus (benché il maritino si diletti di cornificarla appena può), e un bagno annuale nella fonte di Canato, presso Argo, le restituisce ciclicamente la verginità.
Mentre Paride esamina con cura ogni centimetro del corpo divino, la Regina degli Dei gli sussurra che se scaglierà lei, Paride sarà ricompensato con la signoria su tutta l’Asia e immense ricchezze.
Poi è la volta di Atena, la glaucopis (occhio ceruleo), forse per la prima volta senza l’elmo (Afrodite aveva insistito su questo fatto: pare che la capigliatura delle dea sempre armata non fosse in ordine). Anche questa dea non è niente male. Possiamo immaginare un fisico asciutto, temprato da mille battaglie... quel mix di femminilità e di androginia che fa impazzire tanti maschietti.
E in più la dea fa la sua corruzione: se Paride sceglierà lei, gli dice a bassa voce, la dea farà di Paride l’uomo più saggio della terra e un guerriero invincibile.
La terza è la divina Afrodite, che priva della sua famosa cintura ammaliatrice, tuttavia sfoggia la parte anatomica che la ha resa famosa come la dea Callipigia (ovvero: dal bel sedere).ma nonostante il suo fulgore, anche Afrodite tenta la corruzione: nell’esame, dice a Paride che ricchezze e regni non gli sono necessari, in quanto è figlio di Priamo re di Troia e di mezza Asia (e questo, secondo le leggende che volevano Paride abbandonato alla nascita e inconsapevole delle sue origini, deve essere stato un bel colpo di scena).
E poi promette a Paride, l’uomo più bello del mondo, l’amore della donna più bella del mondo, ovvero Elena di Sparta.
Paride tentenna. Chiedi informazioni su Elena. Risposta: “Elena, figlia di Zeus, è bionda e di carnagione delicata, perché nata da un uovo di cigno. Gli uomini hanno lottato per lei fin dalla sua più tenera infanzia, e tutti i principi della Grecia hanno chiesto la sua mano. Benché sia sposata a Menelao, io giuro che la farò innamorare di te”.
Paride non tentenna più: una gran bella figliola, la più bella del mondo, anzi! E poi far vedere a tutti che lui viene scelto a dispetto del fior fiore della Grecia...
Ovviamente Paride consegna la mela ad Afrodite, guadagnandosi la protezione della dea e, dopo poco tempo, Elena.
E, come accade in tutti i concorsi di bellezza, che fanno le escluse? Non si poteva fare ricorso al giudizio, ma vendicarsi sì. Ed essendo dee, non si limitarono a pubblicare indiscrezioni maligne sul web relative agli amorazzi di Afrodite, o all’incapacità di giudizio del giurato, ma prepararono la distruzione di Troia e di tutta la casa di Paride.
Una dea, come una donna, non prende mai bene il fatto che non apprezzino le sue grazie!
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sabato 13 giugno 2009
GO(D)Ssip - Concorsi di bellezza divina 1
L’estate porterà anche quest’anno con sé la solita pletora di concorsi di bellezza per maschi, femmine, cantanti, mamme, frequentanti spiagge...
Anche i nostri amati dei ogni tanto si dilettavano in gare di bellezza, anche se con premi (e conseguenze) certamente non paragonabili a una foto su un rotocalco estivo.
Ovviamente la vasta folla conoscerà il celeberrimo Giudizio di Paride, la causa prima (?) della Guerra di Troia.
I presupposti in sintesi: gli dei sono al banchetto delle nozze di Teti e Peleo, ma come sempre qualcuno viene escluso. Cioè la vecchia zia Eris.
Anche gli dei sono un po’ da capire: in fondo, invitare a un matrimonio la dea preposta alla Discordia non sembrava di buon auspicio (e infatti il matrimonio andò male lo stesso). La dea, vendicativa, si intrufola lo stesso e lancia sul tavolo una mela d’oro con una scritta enigmatica: “Alla più bella”.
Apriti cielo! Subito si alzano tre dee, che da buoni modelli per le donne mortali, non accettano di essere seconde a nessuno in bellezza.
Si candidano al ricevere la mela Afrodite, dea dell’Amore e della bellezza, Era, la moglie ufficiale di Zeus, regina degli dei, e Atena, la dea delle arti e della guerra (e, a differenza delle altre due, sempre vergine, benché anche Era avesse i suoi trucchetti).
Zeus, l’arbitro per eccellenza, è in difficoltà. Scontentare la moglie (abbondantemente cornificata), la figlia nata dalla sua testa o l’altra figlia che lo avvince nelle trame amorose?
Il saggio re degli dei si comporta da alto burocrate: vista la rogna che può portare solo guai, scarica la palla a un piccolo sottoposto, con la banale giustificazione che, per decidere quale sia la dea più bella, meglio chiedere al mortale più bello. Ovvero Paride.
E’ pur vero che secondo alcuni mitografi, dietro la mela e la seccatura della decisione, c’era proprio un piano di Zeus per rovinare Troia attraverso Paride, ma nel dubbio, tocca al mortale risolvere un problema divino... e beccarsi le conseguenze.
Così Ermes, l’araldo (il Carlo Conti della situazione) si reca da Paride, lo blandisce e lo informa dell’incarico. Ovviamente un rifiuto o una dichiarazione di incapacità a scegliere non è possibile (Paride non è un burocrate di alto livello: in quel momento fa il pastore, e non può scaricare l’arduo giudizio al suo ovino prediletto).
E qui succede ciò che si mormora succeda in ogni concorso di bellezza: il giurato cerca di approfittare delle concorrenti, e le concorrenti, lungi dallo schifarsi, anzi cercano di corrompere il giurato.
Paride se la gioca bene. Dichiarandosi abbagliato dalla bellezza delle dee, diversa per ognuna, ma splendente, chiede un supplemento di valutazione: ovvero vuol vedere le dee nude!
Cosa mica da poco: Atteone vide nuda Artemide, e la dea per punizione lo tramutò in cervo e lo fece sbranare dai suoi cani. Il fatto che Artemide non fosse nella terna delle finaliste a questo concorso, forse ci fa immaginare che più che per punire un oltraggio, Artemide volesse evitare che Atteone raccontasse qualche particolarità fisica della dea non attraente (cellulite? Gambe storte?).
Comunque le dee accettano. Non c’è in ballo l’oltraggio di un mortale che le veda nude, c’è da far schiattare le altre due per l’eternità!
E così la prima delle dee si presenta al pastorello...
Anche i nostri amati dei ogni tanto si dilettavano in gare di bellezza, anche se con premi (e conseguenze) certamente non paragonabili a una foto su un rotocalco estivo.
Ovviamente la vasta folla conoscerà il celeberrimo Giudizio di Paride, la causa prima (?) della Guerra di Troia.
I presupposti in sintesi: gli dei sono al banchetto delle nozze di Teti e Peleo, ma come sempre qualcuno viene escluso. Cioè la vecchia zia Eris.
Anche gli dei sono un po’ da capire: in fondo, invitare a un matrimonio la dea preposta alla Discordia non sembrava di buon auspicio (e infatti il matrimonio andò male lo stesso). La dea, vendicativa, si intrufola lo stesso e lancia sul tavolo una mela d’oro con una scritta enigmatica: “Alla più bella”.
Apriti cielo! Subito si alzano tre dee, che da buoni modelli per le donne mortali, non accettano di essere seconde a nessuno in bellezza.
Si candidano al ricevere la mela Afrodite, dea dell’Amore e della bellezza, Era, la moglie ufficiale di Zeus, regina degli dei, e Atena, la dea delle arti e della guerra (e, a differenza delle altre due, sempre vergine, benché anche Era avesse i suoi trucchetti).
Zeus, l’arbitro per eccellenza, è in difficoltà. Scontentare la moglie (abbondantemente cornificata), la figlia nata dalla sua testa o l’altra figlia che lo avvince nelle trame amorose?
Il saggio re degli dei si comporta da alto burocrate: vista la rogna che può portare solo guai, scarica la palla a un piccolo sottoposto, con la banale giustificazione che, per decidere quale sia la dea più bella, meglio chiedere al mortale più bello. Ovvero Paride.
E’ pur vero che secondo alcuni mitografi, dietro la mela e la seccatura della decisione, c’era proprio un piano di Zeus per rovinare Troia attraverso Paride, ma nel dubbio, tocca al mortale risolvere un problema divino... e beccarsi le conseguenze.
Così Ermes, l’araldo (il Carlo Conti della situazione) si reca da Paride, lo blandisce e lo informa dell’incarico. Ovviamente un rifiuto o una dichiarazione di incapacità a scegliere non è possibile (Paride non è un burocrate di alto livello: in quel momento fa il pastore, e non può scaricare l’arduo giudizio al suo ovino prediletto).
E qui succede ciò che si mormora succeda in ogni concorso di bellezza: il giurato cerca di approfittare delle concorrenti, e le concorrenti, lungi dallo schifarsi, anzi cercano di corrompere il giurato.
Paride se la gioca bene. Dichiarandosi abbagliato dalla bellezza delle dee, diversa per ognuna, ma splendente, chiede un supplemento di valutazione: ovvero vuol vedere le dee nude!
Cosa mica da poco: Atteone vide nuda Artemide, e la dea per punizione lo tramutò in cervo e lo fece sbranare dai suoi cani. Il fatto che Artemide non fosse nella terna delle finaliste a questo concorso, forse ci fa immaginare che più che per punire un oltraggio, Artemide volesse evitare che Atteone raccontasse qualche particolarità fisica della dea non attraente (cellulite? Gambe storte?).
Comunque le dee accettano. Non c’è in ballo l’oltraggio di un mortale che le veda nude, c’è da far schiattare le altre due per l’eternità!
E così la prima delle dee si presenta al pastorello...
domenica 7 giugno 2009
Strani genitori dell’Amore
“Che coss’è l’ammor…” canta Vinicio.
Da dove spunta fuori la forza che travolge, che suscita e che abbatte, tre volte nella polvere, tre volte sull’altar? Da dove sorge questo impulso che fa sussurrare versi e strofe, che sta nelle teste e nelle parole, che accende candele nelle processioni?
Una delle più curiose versioni sull’origine dell’amore, la ritroviamo nel Simposio di Platone, dove si beve, si canta, si dorme, si rivelano gli amori e dove si parla d’amore.
E in questo caso perfino il nostro filosofo dalle spalle larghe, colui che ha svalutato la nostra amata parola “mito”, usa un mito per spiegare ciò che razionalmente non si può spiegare.
Allora: narra Platone che il buon Socrate avrebbe narrato di aver saputo da Diotima, sacerdotessa di Mantinea… che durante un banchetto degli dei, il dio Poro (l’“espediente”), figlio di Meti (la “saggezza”) alzò un po’ troppo il gomito. Così Penìa (la “Povertà”) poté sedurlo, e generare insieme a lui Eros, l’Amore.
Fingiamo per un istante che Platone non avesse bisogno di questo mito per i suoi biechi fini iperurani. Accettiamo la realtà di Diotima, e ipotizziamo che Socrate non avesse inventato le cose lì per lì, solo per farsi bello. Che ci insegna il mito?
Che, se tutto ciò di cui abbiamo bisogno è l’amore, dobbiamo però ricordarci che a causa degli strani genitori, l’amore ci destina alla povertà e a vivere di espedienti? O che l’amore è un espediente che ci fa sentire ricchi anche in povertà?
O forse che si può amare la povertà solo da sbronzi (a dispetto di Francesco d’Assisi)?
Voi che ne pensate?
sabato 6 giugno 2009
Remyths - Achille e Ulisse di E. Marica
Narra Omero di Chio che, nei suoi viaggi alla ricerca della rotta per Itaca, Ulisse giunse nelle terre dei morti, situate a occidente dove vivono i Cimmeri. Canta il cieco vate che lì incontrò l’ombra di colui che fu il grande Achille. L’ombra si lamentava della perdita della luce del sole, giungendo a dire che avrebbe preferito essere schiavo sotto la luce del sole che re nella terra dei morti.
Un altro mito, al contrario, narra che, dopo la morte, Achille fu portato sull’Isola dei Beati, e lì regnò sui morti, assieme ad Elena divenuta sua sposa.
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ACHILLE ED ULISSE
- Sei alfine giunto anche tu, Odìsseo!
- Ti saluto, o prode Achille, signore dell’Isola dei Beati. Non fu su questi lidi che ti trovai, all’epoca in cui cercavo l’ombra profetica di Tiresia il Tebano, negli oscuri paesi degli occidentali Cimmeri.
- Ben è vero. Ma i mortali possono molto, sui morti e sugli immortali: il cieco di Chio vide bene, allora, quando narrò i tuoi viaggi e le tue sofferenze, ma (Zeus ti ringrazio!) qualcuno si è già indignato ai tuoi racconti e mi vuole ancora re, quale non fui che per un poco a Ftia. E il mondo buio di Ades si è aperto, e come si vuole là, tale io, qui, sono divenuto.
- Davvero singolare, forte Achille piè veloce! Sappi che nonostante i miei racconti, ora v’è qualcuno che parla male di me, sul ventre di Gaia. Triste: sofferenze per venti anni, un poco di riposo, dover ancora partire per placare l’ira dello Scuotiterra Poseidone, tornare e poi dal mare la morte, come disse Tiresia. Mai pace per Odìsseo, re per poco di Itaca. E gli uomini non tutti mi amano, nonostante ciò.
- Così è, Odìsseo. Il tuo cammino sulla terra fu più lungo del mio e più travagliato. La tua astuzia non ti evitò la sofferenza, ma spesso ne diede!
- Oh!, il vanto mio, l’intelligenza! Tanto dalla mente acuta fu Odìsseo che si inimicò il dio del mare, il potente padre dei Ciclopi, solo perché il mondo sapesse chi avesse accecato Polifemo! Il sagace Odìsseo, che suggerì a Tindareo il modo per risolvere i problemi suoi e spopolare la terra degli Achei e la propria stessa casa! L’intricato Odìsseo, che suggerì come violare le mura di Troia che, con la presunzione di chi prevale sul nemico, dicevamo invitte, quando invece una generazione prima di là entrò Eracle il grande! E perché la gloria nostra fosse, e non oscurata dalla sua, ecco che inventammo la fola che egli era un dio, così da giustificare le sue grandi imprese. Ma il povero Aiace di Salamina spesso narrava che il padre suo Telamone (per Zeus! Un mortale di certo!), fu Telamone ad entrare per primo a Troia, tanto che il divino Eracle, così umanamente geloso, voleva ucciderlo! E se le grandi imprese di Eracle erano dovute alla sua divinità, le nostre piccole, fatte da umani, crescevano! Ma parliamo delle mie vicende, grandi e nuove, disse qualcuno. Le sirene? Le superarono gli Argonauti guidate da un infido seduttore traditore, senza patria come me. Il viaggio agli Inferi? Ma non Cerbero mi fermò il passo, come ad Orfeo e ad Eracle! Circe e Scilla? Sempre secondo fui, dietro al senza-patria Giasone. Troia l’ho detta, forse solo i Ciclopi sono a mia gloria imperitura. Per il resto non fui capace che di essere per sette anni prigioniero di una ninfa gelosa, rovinare i Feaci, devastare il paese dei Ciconi, temere l’oblio dei Lotofagi e perdere tutti i miei compagni.
- E ti par poco, Odìsseo? Ma il tuo parlare mi insospettisce, troppo umile…
- Per nulla, grande Achille! Dopo la morte si riflette, e d’altronde il tuo glorioso nome è ben più elogiato del mio, lassù!
- Tu dici? Ciò è bene. Eppure, in confidenza, se altri non odono, ti dirò ciò che temo.
- Parla, amico: mai si dica che Odìsseo non accetta le confidenze di un amico.
- Allora ti dirò. Io non fui legato dal giuramento di Tindareo, ma andai a Troia per gloria. Fui grande nelle stragi, tanto da disgustare lo Xànto, amai tante donne e non ne ebbi alcuna, venni per espugnare e nulla conquistai. Il duello mio contro Ettore ricordato per sempre? Sì, a gloria del Troiano, che gli dei amavano! Di me si dice, lo temo: “Era invulnerabile, eppure aveva anche le armi di Efesto per lui inutili, e Atena ingannò il figlio di Priamo!” E ancora: "Achille? In quel duello Achille è solo come la mano che uccide il vero eroe e poi lo strazia". Si ama Achille, forse? Si può amare? No: Ettore era l’uomo che combatteva per la patria ma non ama la guerra, che potrebbe nascondersi dietro forti mura dette impenetrabili e così godere di attimi vicino alla moglie amata e all’adorato figlio, speranza di Troia, ma scende in campo perché la città e l’onore lo vogliono, e muore. Per lui pianti finché il sole risplenderà su le sciagure umane, ma dov’è Achille, cieco cantore di Chio? Perché non abbellisti il vero, e mi mostrasti invece furente per uno sgarbo fatto dal re di re, Agamennone di Micene? Dispettoso re contro dispettoso giovane. Mi ritirai offeso come bimbo cui il padre tolga il balocco preferito, e respinsi te e Fenice, giunti alla mia tenda come pacificatori, perché non mi pregavate abbastanza. Achille è furente per la morte di Patroclo, dimentica l’offesa solo perché una più grande gli è stata fatta. Achille si impietosisce di fronte al vecchio Priamo, ricordando un padre visto poco. Achille, l’eroe senza sfumature e incapace di menzogna, tanto da dirti: “Meglio schiavo tra i vivi che re tra i morti!”. Bene, ora sono re tra i morti per davvero, e non mi pento della frase, chè mi accorsi di non aver mai vissuto. Voi mi usaste, Achei, e tu mi dannasti due volte: col giuramento maledetto dei pretendenti di Elena e con l’inganno di Sciro, o Odìsseo! E Achille che odia o ama o null’altro, ora ti odia. E l’odia del re dei morti è terribile, lo scoprirai!
- Strana è la tua favella, Achille: tu scegliesti, ben lo sai. Io... io non scelsi mai, e se la mia mente fu acuta, lo fu solo per generare mali. Fui il più povero re dell’Ellade, re di un'isola di pietre e di nulla più. Fui pretendente di Elena con nessuna speranza: l’ingegno non poteva pagare il donativo al re di Sparta. Ma fu con la mia mente che comprai una sposa al mio livello, Penelope, fedele e salda come la mia terra, non splendida rosa che appassisce nel deserto, e la ebbi ideando il giuramento che tu dici di odiare. Tu mi dici: “Mi facesti lasciare Sciro, ove travestito da femmina facevo una vita indegna e che odiavo”. Mento? Non un attimo esitasti, solo una carezza alla dolce Deidamia, già donna quando altre ancora giocano con i balocchi, e poi via a Troia, a cercare la gloria che chiedesti unita alla breve vita. A te, diedi solo il modo di avere gloria nella vita che scegliesti. Avresti voluto essere schiavo, dicesti agli Inferi: ma a te solo gli dei chiesero cosa volessi fare della tua vita. A me la imposero. Tu hai fatto la vita che hai scelto, solo tua è la colpa se sbagliasti. Ma io? Io volevo la moglie, il duro campo, la quotidiana fatica e gioia dell'educare un figlio... Navigando sul mare color del vino tornai naufrago, trovando lei sì fedele, ma vecchia, un figlio sconosciuto divenuto uomo, un regno prosciugato della ricchezza e di quelli della mia generazione, un popolo diviso. Oh! Achille! E io godetti almeno dei resti? No, lo ripeto: di nuovo in viaggio a cercare ove si ignora l’uso dl remo, per placare lo Scuotiterra. E tornare vecchio, non ritrovare il figlio, fuggito per timore di una profezia, ma trovare la morte. Cercai tanto ed in ogni luogo, Achille, e come tutti i mortali trovai solo la morte. Oh!, tu non fosti mai fatto per filosofare, e con te Chirone riuscì solo nell’insegnamento della lira, ma non vedi l’ironia? Più lottavo e più la morte si ripresentava, ancora più terribile. Fuggivo e mi seguiva. Cercavo di sconfiggerla ed il tempo mi avvicinava ad essa. E ogni volta in più l’angoscia che tutte le lotte erano inutili, che assai più facile sarebbe stato arrendersi subito.
- Non ti comprendo, uomo dai tortuosi pensieri. Non avesti forse vendetta su chi ti trascinò a Troia, vendetta sui Ciclopi, e perfino sullo Scuotiterra, signore dei cavalli, non riuscì ad averti tra i suoi flutti. Sarai ricordato per questo, e non ti compiaci? La morte ed il dolore sono il Fato dei mortali: diverse sono le vie per percorrerlo, ma unica è la meta. E’ vero, rimpiango la vita, ma non la scelta: via breve, ditta, gloriosa, luminosa, faccia a faccia con tutti e su tutti vincitore...
- Meno che sul più vile di tutti!
- Motteggi, Itacense?
- Potrei, di fronte al mio nuovo re per l’eterno? No, volevo solo ricordare quanto più tortuoso di me sia il destino... Lasciamo discorsi inutili, più non contano. Ognuno ebbe ciò che gli toccò, e sarà ricordato per ciò che è stato.
- Questo è certo. E non disperare, Odìsseo: mi hai convinto che nessuna ragione vi è perché io ti odi, come fa e farà in eterno mio cugino Aiace. Disse che non ti aveva parlato allora, nelle terre dei Cimmeri, non per lo sdegno, ma per il timore della tua parola. Ma ormai siamo tutti morti, e le dispute dei vivi sono vane. Io sono il re e vi farò incontrare: e come persuadesti me della falsità del mio odio, così anche lui presto non sarà più irato. E tutti insieme ricorderemo ciò che ci ha resi immortali nella mente degli uomini.
- Così sia. E te ne ringrazio, sire.
- Suvvia, Achille è il mio nome. Sono re, ma tranne che in questo piccolo temporale, l’amicizia di un tempo resta ancora.
- Il mio spirito è gioioso di ciò. Ti omaggio.
(Achille si allontana, e lo spirito di Ulisse ride malizioso)
- La gloria fra gli uomini? In ogni caso siamo morti. E’ vero, modificano il nostro stato, ma non lo faranno per sempre. Presto ci oblieranno, o ci vedranno fissi nel tempo... Ma se il ricordare il passato e la luce del sole bastano a chi non fu altro che un guerriero, questo non è il destino di Odìsseo! La tua forza, la tua velocità, la tua invulnerabilità ormai sono nulla tra i morti, Achille, e solo il vuoto titolo di re ti fa essere felice qui! Ma la mia mente è intatta e salda, e io non sono uno che sta a lungo inattivo. Vi è un regno, effimero quanto vuoi, da prendere, e chissà che non vi sia anche un modo per uscire da qui! Non v’è forse riuscito Orfeo? Le mie parole sapranno essere ben più potenti della sua lira... Orsù, basta! Arrivano Achille, Menelao... e perfino Aiace! Mostra il tuo sorriso migliore, Odìsseo, ed iniziamo a pensare, a progettare, a manipolare... a vivere ancora!
Un altro mito, al contrario, narra che, dopo la morte, Achille fu portato sull’Isola dei Beati, e lì regnò sui morti, assieme ad Elena divenuta sua sposa.
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ACHILLE ED ULISSE
- Sei alfine giunto anche tu, Odìsseo!
- Ti saluto, o prode Achille, signore dell’Isola dei Beati. Non fu su questi lidi che ti trovai, all’epoca in cui cercavo l’ombra profetica di Tiresia il Tebano, negli oscuri paesi degli occidentali Cimmeri.
- Ben è vero. Ma i mortali possono molto, sui morti e sugli immortali: il cieco di Chio vide bene, allora, quando narrò i tuoi viaggi e le tue sofferenze, ma (Zeus ti ringrazio!) qualcuno si è già indignato ai tuoi racconti e mi vuole ancora re, quale non fui che per un poco a Ftia. E il mondo buio di Ades si è aperto, e come si vuole là, tale io, qui, sono divenuto.
- Davvero singolare, forte Achille piè veloce! Sappi che nonostante i miei racconti, ora v’è qualcuno che parla male di me, sul ventre di Gaia. Triste: sofferenze per venti anni, un poco di riposo, dover ancora partire per placare l’ira dello Scuotiterra Poseidone, tornare e poi dal mare la morte, come disse Tiresia. Mai pace per Odìsseo, re per poco di Itaca. E gli uomini non tutti mi amano, nonostante ciò.
- Così è, Odìsseo. Il tuo cammino sulla terra fu più lungo del mio e più travagliato. La tua astuzia non ti evitò la sofferenza, ma spesso ne diede!
- Oh!, il vanto mio, l’intelligenza! Tanto dalla mente acuta fu Odìsseo che si inimicò il dio del mare, il potente padre dei Ciclopi, solo perché il mondo sapesse chi avesse accecato Polifemo! Il sagace Odìsseo, che suggerì a Tindareo il modo per risolvere i problemi suoi e spopolare la terra degli Achei e la propria stessa casa! L’intricato Odìsseo, che suggerì come violare le mura di Troia che, con la presunzione di chi prevale sul nemico, dicevamo invitte, quando invece una generazione prima di là entrò Eracle il grande! E perché la gloria nostra fosse, e non oscurata dalla sua, ecco che inventammo la fola che egli era un dio, così da giustificare le sue grandi imprese. Ma il povero Aiace di Salamina spesso narrava che il padre suo Telamone (per Zeus! Un mortale di certo!), fu Telamone ad entrare per primo a Troia, tanto che il divino Eracle, così umanamente geloso, voleva ucciderlo! E se le grandi imprese di Eracle erano dovute alla sua divinità, le nostre piccole, fatte da umani, crescevano! Ma parliamo delle mie vicende, grandi e nuove, disse qualcuno. Le sirene? Le superarono gli Argonauti guidate da un infido seduttore traditore, senza patria come me. Il viaggio agli Inferi? Ma non Cerbero mi fermò il passo, come ad Orfeo e ad Eracle! Circe e Scilla? Sempre secondo fui, dietro al senza-patria Giasone. Troia l’ho detta, forse solo i Ciclopi sono a mia gloria imperitura. Per il resto non fui capace che di essere per sette anni prigioniero di una ninfa gelosa, rovinare i Feaci, devastare il paese dei Ciconi, temere l’oblio dei Lotofagi e perdere tutti i miei compagni.
- E ti par poco, Odìsseo? Ma il tuo parlare mi insospettisce, troppo umile…
- Per nulla, grande Achille! Dopo la morte si riflette, e d’altronde il tuo glorioso nome è ben più elogiato del mio, lassù!
- Tu dici? Ciò è bene. Eppure, in confidenza, se altri non odono, ti dirò ciò che temo.
- Parla, amico: mai si dica che Odìsseo non accetta le confidenze di un amico.
- Allora ti dirò. Io non fui legato dal giuramento di Tindareo, ma andai a Troia per gloria. Fui grande nelle stragi, tanto da disgustare lo Xànto, amai tante donne e non ne ebbi alcuna, venni per espugnare e nulla conquistai. Il duello mio contro Ettore ricordato per sempre? Sì, a gloria del Troiano, che gli dei amavano! Di me si dice, lo temo: “Era invulnerabile, eppure aveva anche le armi di Efesto per lui inutili, e Atena ingannò il figlio di Priamo!” E ancora: "Achille? In quel duello Achille è solo come la mano che uccide il vero eroe e poi lo strazia". Si ama Achille, forse? Si può amare? No: Ettore era l’uomo che combatteva per la patria ma non ama la guerra, che potrebbe nascondersi dietro forti mura dette impenetrabili e così godere di attimi vicino alla moglie amata e all’adorato figlio, speranza di Troia, ma scende in campo perché la città e l’onore lo vogliono, e muore. Per lui pianti finché il sole risplenderà su le sciagure umane, ma dov’è Achille, cieco cantore di Chio? Perché non abbellisti il vero, e mi mostrasti invece furente per uno sgarbo fatto dal re di re, Agamennone di Micene? Dispettoso re contro dispettoso giovane. Mi ritirai offeso come bimbo cui il padre tolga il balocco preferito, e respinsi te e Fenice, giunti alla mia tenda come pacificatori, perché non mi pregavate abbastanza. Achille è furente per la morte di Patroclo, dimentica l’offesa solo perché una più grande gli è stata fatta. Achille si impietosisce di fronte al vecchio Priamo, ricordando un padre visto poco. Achille, l’eroe senza sfumature e incapace di menzogna, tanto da dirti: “Meglio schiavo tra i vivi che re tra i morti!”. Bene, ora sono re tra i morti per davvero, e non mi pento della frase, chè mi accorsi di non aver mai vissuto. Voi mi usaste, Achei, e tu mi dannasti due volte: col giuramento maledetto dei pretendenti di Elena e con l’inganno di Sciro, o Odìsseo! E Achille che odia o ama o null’altro, ora ti odia. E l’odia del re dei morti è terribile, lo scoprirai!
- Strana è la tua favella, Achille: tu scegliesti, ben lo sai. Io... io non scelsi mai, e se la mia mente fu acuta, lo fu solo per generare mali. Fui il più povero re dell’Ellade, re di un'isola di pietre e di nulla più. Fui pretendente di Elena con nessuna speranza: l’ingegno non poteva pagare il donativo al re di Sparta. Ma fu con la mia mente che comprai una sposa al mio livello, Penelope, fedele e salda come la mia terra, non splendida rosa che appassisce nel deserto, e la ebbi ideando il giuramento che tu dici di odiare. Tu mi dici: “Mi facesti lasciare Sciro, ove travestito da femmina facevo una vita indegna e che odiavo”. Mento? Non un attimo esitasti, solo una carezza alla dolce Deidamia, già donna quando altre ancora giocano con i balocchi, e poi via a Troia, a cercare la gloria che chiedesti unita alla breve vita. A te, diedi solo il modo di avere gloria nella vita che scegliesti. Avresti voluto essere schiavo, dicesti agli Inferi: ma a te solo gli dei chiesero cosa volessi fare della tua vita. A me la imposero. Tu hai fatto la vita che hai scelto, solo tua è la colpa se sbagliasti. Ma io? Io volevo la moglie, il duro campo, la quotidiana fatica e gioia dell'educare un figlio... Navigando sul mare color del vino tornai naufrago, trovando lei sì fedele, ma vecchia, un figlio sconosciuto divenuto uomo, un regno prosciugato della ricchezza e di quelli della mia generazione, un popolo diviso. Oh! Achille! E io godetti almeno dei resti? No, lo ripeto: di nuovo in viaggio a cercare ove si ignora l’uso dl remo, per placare lo Scuotiterra. E tornare vecchio, non ritrovare il figlio, fuggito per timore di una profezia, ma trovare la morte. Cercai tanto ed in ogni luogo, Achille, e come tutti i mortali trovai solo la morte. Oh!, tu non fosti mai fatto per filosofare, e con te Chirone riuscì solo nell’insegnamento della lira, ma non vedi l’ironia? Più lottavo e più la morte si ripresentava, ancora più terribile. Fuggivo e mi seguiva. Cercavo di sconfiggerla ed il tempo mi avvicinava ad essa. E ogni volta in più l’angoscia che tutte le lotte erano inutili, che assai più facile sarebbe stato arrendersi subito.
- Non ti comprendo, uomo dai tortuosi pensieri. Non avesti forse vendetta su chi ti trascinò a Troia, vendetta sui Ciclopi, e perfino sullo Scuotiterra, signore dei cavalli, non riuscì ad averti tra i suoi flutti. Sarai ricordato per questo, e non ti compiaci? La morte ed il dolore sono il Fato dei mortali: diverse sono le vie per percorrerlo, ma unica è la meta. E’ vero, rimpiango la vita, ma non la scelta: via breve, ditta, gloriosa, luminosa, faccia a faccia con tutti e su tutti vincitore...
- Meno che sul più vile di tutti!
- Motteggi, Itacense?
- Potrei, di fronte al mio nuovo re per l’eterno? No, volevo solo ricordare quanto più tortuoso di me sia il destino... Lasciamo discorsi inutili, più non contano. Ognuno ebbe ciò che gli toccò, e sarà ricordato per ciò che è stato.
- Questo è certo. E non disperare, Odìsseo: mi hai convinto che nessuna ragione vi è perché io ti odi, come fa e farà in eterno mio cugino Aiace. Disse che non ti aveva parlato allora, nelle terre dei Cimmeri, non per lo sdegno, ma per il timore della tua parola. Ma ormai siamo tutti morti, e le dispute dei vivi sono vane. Io sono il re e vi farò incontrare: e come persuadesti me della falsità del mio odio, così anche lui presto non sarà più irato. E tutti insieme ricorderemo ciò che ci ha resi immortali nella mente degli uomini.
- Così sia. E te ne ringrazio, sire.
- Suvvia, Achille è il mio nome. Sono re, ma tranne che in questo piccolo temporale, l’amicizia di un tempo resta ancora.
- Il mio spirito è gioioso di ciò. Ti omaggio.
(Achille si allontana, e lo spirito di Ulisse ride malizioso)
- La gloria fra gli uomini? In ogni caso siamo morti. E’ vero, modificano il nostro stato, ma non lo faranno per sempre. Presto ci oblieranno, o ci vedranno fissi nel tempo... Ma se il ricordare il passato e la luce del sole bastano a chi non fu altro che un guerriero, questo non è il destino di Odìsseo! La tua forza, la tua velocità, la tua invulnerabilità ormai sono nulla tra i morti, Achille, e solo il vuoto titolo di re ti fa essere felice qui! Ma la mia mente è intatta e salda, e io non sono uno che sta a lungo inattivo. Vi è un regno, effimero quanto vuoi, da prendere, e chissà che non vi sia anche un modo per uscire da qui! Non v’è forse riuscito Orfeo? Le mie parole sapranno essere ben più potenti della sua lira... Orsù, basta! Arrivano Achille, Menelao... e perfino Aiace! Mostra il tuo sorriso migliore, Odìsseo, ed iniziamo a pensare, a progettare, a manipolare... a vivere ancora!
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