giovedì 31 dicembre 2009

CATASTROFI A SCELTA - Escatologia Iranica


La percezione comune dell'Iran attuale spesso offusca il contributo al mito che nell'antichità fu dato dagli abitanti di questa terra.
Per gran parte di noi l'Iran è una terra mussulmana come lo è sempre stata, popolata da arabi che parlano arabo.
Ovviamente è superfluo ricordare che l'Islam si diffuse a partire dall'Egira di Maometto nel 622 della nostra era, e che gli attuali iraniani sono in gran parte i discendenti degli antichi Persiani, popolo di lingua e cultura indoeuropea, più vicino anche etnicamente agli Arya dell'India e alle popolazioni indoariane che invasero l''Europa qualche millennio prima della nascita di Cristo, che ai semiti della Fertile Mezzaluna.

Facendo un po' di mente locale magari ci ricordiamo di Zarathustra che così parlò, grazie a Nietzsche o a qualche cantante italico. Chi ha seguito senza sbadigli qualche lezione di storia ricorderà il culto di Mitra, chi non ha dormito durante quelle di geografia (o, orrore!, di glottologia all'università) ricorda i Parsi, fiorente comunità di Zoroastriani stanziata a Mumbay e dintorni, che custodiscono i libri dell'Avesta, che racchiudono una sapienza (e una lingua) assai antica...

Dall'antica tradizione iranica, in tempo per un 31 dicembre che segna la fine di un anno, ci piace ricordare un mito sulla fine del mondo, con alcune differenze rispetto ad altre mitologie indoeuropee, in particolare un concetto di retribuzione delle azioni compiute in vita che è estraneo a tanti miti escatologici dei "cugini" indoariani.

Il mondo è un campo di battaglia tra Ahura Mazda\Ormazd, il Signore Giusto, la Luce dell'alto, e il suo doppio Angra Mainyu\Arimane, le Tenebre di Quaggiù. Essi alle origini fecero un patto che stabilì le regole del loro duello nella creazione, e agli uomini fu offerto di scegliere se restare per sempre nello stato spirituale o di incarnarsi per assicurare sulla Terra il trionfo di Ormazd.

Narravano gli antichi che la storia dell'umanità (nata dopo che il buon Ormazd soppresse nei nostri avi un cannibalico gusto per la prole) copre solo seimila anni: dopo vari re più o meno storici, giungerà il millennio caratterizzato dal regno di Usetar, figlio di Zaratust che aveva iniziato il millennio nel quale viviamo. Il dominio di Usetar terminerà con la glaciazione di Malkus, cui sopravviveranno solo gli esseri protetti dal Recinto di Yim Set, dove scompariranno le malattie.
Dopo il millennio di Usetar seguirà il millennio di suo fratello secondogenito Usetarmah: questo millennio finirà nei flagelli, ma prima gli uomini avranno iniziato, gradualmente, a rinunciare alla carne, al latte, alle piante, recuperando, possiamo intuire, la purezza originaria.

Poi verrà il momento del terzogenito di Zaratust, ovvero Sosyans, il salvatore: la sua venuta inaugurerà il "Corpo Futuro", in cui il Rinnovamento sarà una "ripresa" dell'antico, e in cui le creature del passato risorgeranno. Il primo a risorgere sarà Gayomart, colui che era stato il primo uomo, quindi tutti gli uomini risorgeranno e saranno condotti davanti al tribunale di Isatvastar, figlio di Zaratust, dove ognuno dovrà rispondere di quanto ha fatto in vita. La prova più terribile sarà quella del "metallo fuso", che sarà tale per i malvagi, ma per chi è stato giusto sembrerà latte caldo.
Sosyans ucciderà il bue Hatayos, il cui grasso, insieme al hom\haoma (la sacra bevanda degli dei) formerà la bevanda delll'Immortalità. Ciascun demone cerato nei primordi da Arimane verrà sconfitto dal corrispondente Benefattore Immortale (uno degli Amesha Spenta) creato da Ormazd, e lo stesso Arimane sarà per sempre cacciato nella sua tenebra.

Allora nascerà un nuovo mondo, rinnovato, sarà un mondo senza più montagne (sic!), puro.
Ma tutto ciò era inevitabile: la vittoria della luce era sicura fin dalla creazione, e l'uomo, attraverso il suo impegno a fare il bene in pensieri, parole, opere e nella rinuncia all'adorazione dei demoni, può solo accelerare questa eucatastrofe, questa gloriosa e positiva fine del mondo.


Un piccola nota calendariale...
In una tradizione più tarda sarà Mitra, una delle divinità più antiche del pantheon iranico (e dell'India) a prendere il posto di Sosyans nel sacrificio del Toro, nello scatenare il fuoco purificatore e nel resuscitare i morti.
Nel mondo romano Mitra, figura solare, veniva festeggiato il 25 dicembre giorno della festa del Sole: era il giorno che segnava il lento ritorno del sole a prevalere sulle tenebre della stagione fredda. In combinazione con i vicini Saturnalia di tradizione latina (17-23 dicembre), tale festa era talmente popolare che il cristianesimo nascente dovette scendere a patti: la nascita di Gesù venne spostata proprio a questa data per "colonizzare" e cristianizzare questa ricorrenza.
San Nicola di Myra con i suoi doni (e il vecchio rossovestito e un po' brillo diffuso da una bibita) sarebbe arrivato un po' dopo.

domenica 20 dicembre 2009

MITOLOGIA COMPARATA - Nipoti nefasti


Se gli dei sono dei, immortali o per lo meno lungoviventi, ci aspetteremmo un rispetto delle nuove generazioni verso le vecchie, garanti dell'ordine, della tradizione e, perché no?, anche della creazione.
Invece la mitologia indoeuropea abbonda di giovani impertinenti, ribelli e talvolta disposti a tutto pur di far fuori i propri predecessori. E questo vale sia per gli dei che per gli eroi.

Un mito dall'impronta fiabesca sembra muoversi tra varie tradizioni indoeuropee: il rovesciamento, o addirittura l'uccisione, del nonno da parte del nipote, nonostante l'impegno che il vecchio re ci mette... per non avere nipoti!
Tra nonni e nipoti non correva buon sangue nella preistoria, se a due estremi del grande arco indoeuropeo troviamo quelle che sembrano due forme dello stesso mito: il mito di Balor e Lugh in Irlanda, e il mito di Acrisio e Perseo in Grecia.

Il mito greco è ovviamente quello più noto ai nostri lidi. Si narra che i re di Argo Acrisio, figlio di Abante e di Aglaia la Luminosa, sposò Aganippe e ne ebbe una sola figlia, ovvero Danae. Un oracolo gli disse che non avrebbe avuto altri figli maschi, ma che anzi suo nipote l'avrebbe ucciso.
Così Acrisio chiuse Danae in una torre di bronzo, custodita da cani ferocissimi; ma Zeus la vide, si invaghì di lei e discese sulla fanciulla in forma di pioggia d'oro. Da questo rapporto nacque Perseo.
Quando Acrisio lo seppe, non ebbe cuore di uccidere la figlia e il nipote, ma li mise su un'arca di legno e la gettò in mare.
Ma Perseo e la madre si salvarono: giunti a Serifo furono salvati dal pescatore Ditti, e Perseo divenne in seguito l'eroe che uccise la Gorgone Medusa, il cui sguardo pietrificava gli uomini. Ma visto che ad un oracolo non si può sfuggire, Perseo andò alla ricerca del nonno, nonostante Acrisio lo evitasse temendo il destino di morte che lo attendeva. Per puro caso entrambi giunsero a Larissa, ai giochi funebri in onore del padre di re Teutamide e lì Perseo, che gareggiava nel pentathlon, lanciò un disco che, deviato dal vento e dal volere divino, colpì Acrisio al piede, causandogli la ferita che lo portò alla morte. Perseo eredita il trono di Argo.


Nella verde Irlanda, si narrava che i Tuatha Dè Dannan, il "Popolo della Dea Danu", i divini abitatori dell'isola, fossero costretti a pagare tributi esorbitanti ai Fomoir o Fomori, giganti marini che tormentavano i diversi abitatori di Eriu. Uno dei re dei Fomori era noto come "Balor dall'Occhio malefico": il gigante aveva un occhio solo, enorme, il cui sguardo provocava la morte di ogni nemico su cui si posasse. Balor era invecchiato, però, e la sua palpebra era ormai tanto pesante per lui che la sua "arma tattica" poteva essere usata in battaglia solo se la palpebra stessa era sollevata da quattro uomini con carrucole e funi!
Balor non poteva essere ucciso da nessuna arma, eppure una profezia diceva che la sua rovina sarebbe giunta a opera di suo nipote. Così Balor fece rinchiudere sua figlia Eithne in una caverna sull'isola di Tory, con dodici serve, perché non potesse generare figli con nessuno.
Ma Kian, uno dei Tuatha Dè Dannan, carico di rancore nei confronti di Balor, si travestì da donna e riuscì a introdursi nella caverna, dove sedusse fanciulla. Eithne generò tre gemelli, e Balor, timoroso della profezia, li fece gettare in mare.
Due morirono, ma l'ultimo, Lugh, fu salvato da un fabbro. Divenuto adulto, guidò i Tuatha Dè Dannan nella guerra decisiva contro i Fomori. Fu proprio Lugh a decidere lo scontro: scagliando una pietra, colpì l'occhio del nonno con tanta forza che l'occhio e il proiettile sfondarono il cranio di Balor, uccidendolo. L'occhio però aveva ancora il suo potere malefico: ribaltato, lanciò il suo sguardo di distruzione sull'esercito di Fomoir, sterminandolo e garantendo la vittoria ai Tuatha Dè. Lugh diventa il capo dei Tuatha Dè Dannan.

Le somiglianze tra i due miti sembrano tante. Non trascureremo il nome di Danae e della Dea Danu, ma affideremo il confronto ai linguisti per ribadire l'identità della Dea Bianca nelle sue diverse forme.
Come sempre ci interessa la struttura del mito al di là dei nomi, ovviamente: c'è un vecchio re senza eredi maschi, con una figlia e una profezia di morte che gli pende sul capo. La morte verrà dal nipote (maschio), quindi il vecchio re cerca di fare in modo che la figlia non generi, rinchiudendola in un luogo sicuro.
Un dio riesce a introdursi nel nascondiglio della figlia del re, e concepisce con lei il nipote della profezia. Il vecchio re non uccide il nipote, ma lo getta in mare. Il nipote però si salva, cresce e compie imprese tra cui l'uccisone di una creatura con lo sguardo che uccide. Con un lancio di un oggetto il nipote uccide finalmente il re e diventa il nuovo sovrano.
Se non ci appelliamo agli archetipi junghiani, dobbiamo riconoscere che da qualche parte nelle attuali steppe russe (zona dalla quale, a quanto pare, si mossero gli antenati degli indoeuropei) una storia simile fu raccontata o fu vissuta, e si tramandò nel tempo fino alle forme simili, eppure diverse, che conosciamo.



Nota 1
Robert Graves nei suoi Miti Greci (73.9) fa un parallelismo tra l'unico dente posseduto dalle tre Graie, cui Perseo estorse l'indicazione del luogo in cui si trovava Medusa, e il dente divinatorio di Fionn della leggenda irlandese. Ma le Graie avevano in comune anche un solo occhio, che si scambiavano tra loro. Potrebbe essere una metafora dell'anno tripartito, che tante volte ritorna nelle ipotesi di Graves (le tre stagioni originarie = le tre Graie che si scambiano un solo occhio = il sole), ma c'è un particolare: Perseo riesce a togliere loro l'occhio, ottenendo così l'informazione che gli serve. Ma anche l'occhio di Balor secondo alcuni è un simbolo solare, visto che anche suo nipote Lugh è ugualmente legato al sole; forse questi miti hanno qualche altro legame in più...

Nota 2
Tanti sono i bambini salvati dalle acque per un più glorioso e mitico destino: da Romolo e Remo, a Mosè, a Sargon di Akkad...

Nota 3
Se pensate che siano solo i nonnini a dover fare i conti con nipotastri arrivisti, non dimenticate le varianti del fratello del nonno usurpatore ucciso dal \ con il contributo del nipote (vedi ancora una volta il mito di Romolo e Remo), e anche quella in cui l'usurpatore è lo zio (come accade tra Pelia e Giasone)

REMYTHS - Il ritorno dei Titani



Attenzione! Questo è un post subdolamente promozionale nonostante gli sproloqui!

Sembra assurdo, ma talvolta cerchiamo spunti narrativi più in mitologie che ci sono estranee (dalla nordica a quella giapponese) più che in quella classica dei greci e dei latini, che è la base della nostra cultura.
Timore reverenziale? Paura del confronto? Convinzione che tutto sia stato già detto?

Sapete bene che su questo blog il mito è apprezzato a 360° ma che abbiamo un debole per i miti di casa nostra, da vedere come vivi e ancora in grado di darci nuove visioni del mondo. I post della categoria Remyths vorrebbero proprio fare questo: usare l'infinito e sempre fecondo materiale di miti antichi, per narrare nuovi miti.

In più ci piace il fumetto e un sogno neppure tanto segreto è quello di postarvi qui, un giorno, le strisce (se mai ci saranno) del leggendario Atenodoro l'Acheo, l'ultimo degli eroi della mitologia greca, ingiustamente sabotato da autori letteralmente ciechi che hanno favorito chissà perchè un Achille qualsiasi...

Così ci piace suggerirvi per Natale (e dopo) l'albo a fumetti intitolato "L'Era dei Titani", realizzato da Adriano Barone e dal buon Max Dall'Oglio, edito da BD (se volete saperne di più, cliccate qui!).
E' vero: uno dei due autori (Max) è un amico, ma bastano il titolo e lo spunto perchè qui se ne parli!

La storia in breve? Non siamo nel passato (o forse sì?), bensì in un futuro dove l'umanità è confinata in due gigantesche città a causa di un misterioso virus e della minaccia dei Titani, creature che... vabbè, conme al solito mi faccio trascinare e sto per rivelare troppo!
Ma se volete robottoni (gli dei dei miti della nostra Goldrake Generation), città chiamate Cyclopolis e Hecatonkeiropolis (in onore dei Ciclpi e dei Centimani... e così tutta la prima generazione divina c'è!), una protagonista chiamata Cassandra in una città assediata da anni che non si chiama Ilio, Titani che sbranano umani come Crono faceva con i suoi figli, uno stile global-manga dei disegni, azione, lotta, amore e morte...
Comprate, o devoti, comprate!

domenica 29 novembre 2009

TRA MITO E STORIA - La migrazione degli Aztechi


Si narra che un tempo le sette tribù in cui erano divisi gli Aztechi abitassero ad Aztlàn, la "Terra Bianca": era una terra in cui non mancava nulla, né cibo né sette grotte in cui poter abitare.
Ma un giorno un uomo, che si era arrampicato su un albero per prendere del cibo, sentì la voce di un uccello che cantava con voce imperio: "Tihui! Tihui! Tihui!". L'azteco si rese conto che il volatile stava pronunciando una parola nella lingua degli uomini: "Andiamo! Andiamo! Andiamo!"
Il capo Tecpaltzin disse che quello era un segno degli dei: era tempo di lasciare Aztlàn e cercare la terra che gli dei avevano destinato per gli Aztechi.
Così l'intero popolo si mise in marcia, dietro un simulacro di Huitzilopochtli, il loro dio, posto su una portantina di giunchi. Il dio stesso comunicò ai sacerdoti che il popolo doveva andare a sud, alla ricerca di un lago: lì avrebbero visto un'aquila appollaiata su un cactus che cresceva sulle onde del lago stesso; l'aquila avrebbe avuto tra gli artigli un serpente, e le sue ali spiegate avrebbero riflesso la luce del sole nascente.
La marcia verso sud fu difficile: il paese in cui arrivavano era sassoso, arido, zeppo di animali pericolosi che minacciavano i più deboli della colona di Aztechi in marcia.
Huitzilopochtli riapparve a Tecpaltzin e disse che avrebbe messo alla prova il suo popolo: come il dio aveva predetto, infatti, gli Aztechi il giorno dopo trovarono due fagotti, contenenti l'degli sterpi e l'altro una pietra preziosa. Dapprima tutti vollero la pietra, poi alcuni iniziarono a riflettere: con gli sterpi si poteva accendere il fuoco, costruirsi delle capanne, ricavare bastoni e frecce...
Così il popolo si divise: chi prese la pietra preziosa scelse una strada diversa e di loro si è perso il ricordo, gli altri presero gli sterpi e proseguirono nel loro cammino. Giunsero a Tollàn, al capitale dei Toltechi, e lì si stabilirono per un po' di tempo, arricchendosi e vivendo negli agi. Ma Huitzilopochtli riapparve e ricordò che il cammino non era finito.
Lui stesso in forma di aquila bianca guidò il suo popolo fino alle rive del Lago Tezcoco: lì videro l'aquila del segno, ad ali spalancate su un cactus e con un serpente tra gli artigli. Lì Huitzilopochtli parlò ancora, ordinando al suo popolo di costruire una città, Tenochtitlàn, e ordinando agli Aztechi di conquistare tutti i popoli circostanti, su cui lui concedeva il dominio.


Gli storici ritengono che gli Aztechi siano giunti dal Nord, come altre stirpi cicimeche (ovvero "barbare"), e che si siano stanziati sulle sponde del Lago Tezcoco intorno al 1320. Duecento anni dopo Cortès e i suoi conquistadores radevano al suolo la città dopo aver distrutto il tempio del dio Huitzilopochtli, dove si concentrava l'estrema resistenza degli Aztechi: quando il tempio cadde, gli Aztechi smisero di lottare, perché se era caduto il loro dio, anche loro dovevano cedere.
Ma l'aquila sul cactus che stringe il serpente è ancora il simbolo del Messico, e troneggia al centro della sua bandiera tricolore.

giovedì 15 ottobre 2009

MITOLOGIA COMPARATA - Fiori di melo, tempo di spose... again!

I casi fortunati capitano, specie se la mente vacilla e la memoria non è più quella di una volta. Così accade che pensavo di aver trovato, e postato a Voi, vaste masse, tutti gli episodi mitici che collegavano delle mele, spesso d'oro, ai matrimoni di dei o eroi. Tutti i riferimenti contenuti nei libri letti (non su Internet, orrore per i bardi!) durante la mia carriera di onesto appassionato di mitologia.

E invece basta una connessione che non vuole arrivare, un libro lasciato sulla scrivania accanto al pc, sfogliare a caso... Il libro è quello di Brian Branston, intitolato "Gli dei del Nord", che spesso è stato ri-consultato e usato nei post dedicati ai miti norreni. La pagina è la 276, il capoverso il quarto. Non cercavo certo il mito delle nozze di Frey, che ricordavo solo per la spada data come dote (o forse no). Eppure una rapida lettura ed ecco la sorpresa: un nuovo episodio, letto oltre quindici anni fa e finito nei remoti meandri della mente, chissà se divorato dai Langolieri del cervello, che riemerge, e ancora una volta, ci dà un segnale del legame tra mele e nozze!

La storia in breve: Frey è figlio di Njordhr, di cui abbiamo parlato più volte. Frey è il giovane campione dei Vanir, ma in quel momento si trova ad Asgard, non è chiaro se prima o dopo che la guerra in cielo portò lui, il padre Njordhr e la sorella Freya a vivere definitivamente assieme agli Aesir, come pegno della pace tra i due popoli divini dopo quel conflitto. Sta di fatto che Frey riesce a salire sull'Alto Seggio di Odino, Hlidhskjalf, e da lì osserva tutto il mondo. La sua attenzione viene attirata dalla luce emessa da Gerdhr, figlia del gigante Gymir, e subito se ne innamora. Ma l'unione tra i due non poteva essere approvata né dai Giganti, né tantomeno da Aesir e Vanir (e neppure dagli elfi, ci specifica lo Skìrnirsmàl, opera della prima metà del X secolo).

Frey deperisce e si chiede in una muta malinconia, finché il padre gli manda Skìrnir, un amico d'infanzia del figlio: a lui Frey racconta la sua infelice passione e gli chiede di fare da intermediario, rintracciare la donna e portargliela, anche se il padre di lei fosse stato contrario. Skìrnir chiede che Frey gli ceda il suo "cavallo che corre nell'oscurità", per compiere il viaggio, e la sua celebre spada che combatteva da sola, ma non è chiaro se la voglia per se o per offrirla a Gymir come dono di nozze.
Sta di fatto che, dopo un viaggio periglioso, Skìrnir arriva a casa di Gymir, e viene ricevuto da Gerdhr... e a questo punto offre alla gigantessa undici mele d'oro in cambio del matrimonio con Frey. Gerdhr rifiuta questo dono, così come l'anello Draupnir che appartiene a Odino e che ogni notte produce magicamente otto sue copie. Gerdhr cederà solo quando Skìrnir passerà a minacciarla di scagliare maledizioni sempre più terribili se la gigantessa non acconsentirà alle nozze.
Dopo nove giorni ci sarà l'incontro tra Frey e Gerdhr, e il matrimonio sarà celebrato. Ma la magica spada è perduta per lo sposo, e Frey la rimpiangerà quando, il giorno del Ragnarokkr, il Crepuscolo degli dei, dovrà affrontare a mani nude Surtr, il Gigante del Fuoco: Frey verrà annichilito da Surtr che così potrà dare alle fiamme il cielo.

Ancora una volta ci troviamo un episodio che vede le mele come offerta di nozze: Branston ipotizza che si tratti delle mele di Idhunn, le mele che possono dare l'eterna giovinezza, le stesse mele che abbiamo visto all'origine del mito delle nozze tra Njordhr e Skadhi.
Casualmente un altro matrimonio tra uno dei Vanir e una gigantessa...

Una breve nota
Malinconia per malinconia, causata forse dall'amore. Amici di infanzia chiamati per capire cosa tormenti il giovane erede... Sì, ok, la ricorrenza delle trame narrative è ormai assodata, ma una reminiscenza di questa storia non può forse ritrovarsi nella vicenda di Amleto e in Rosenkrantz e Guilderstern? Sì, è vero, non c'è un padre da vendicare e uno zio usurpatore.
Però se pensiamo che dietro Amleto, secondo Santillana e von Dechend (nel volume "Il Mulino di Amleto"), si nasconde l'antica divinità nordica di nome Amlodhi...

domenica 11 ottobre 2009

MITOLOGIA COMPARATA \ GO(D)Ssip - Fàcce ridere!

Gli dei ridono? Pare di sì.
Ma non parleremo di giustizia poetica somministrata ad incauti mortali, di raffinate risate intellettuali, nè della risata tonante di Tulkas quando discese su Arda, come narra il Silmarillion di J.R.R. Tolkien.

Vi racconterenmo di come gli dei conoscano (e apprezzino) la risata becera, da avanspettacolo, quella che nasce dalle allusioni sessuali o dall'esibizione delle proprie parti intime.
Qui non intendiamo spiegare i motivi psicologici che conducono a quello straordinario moto di riso che coinvolge (quasi) tutti noi, anche perchè siamo al massimo umili mitografi (la Mater Dejanarum ci perdoni per tale professione di umiltà): ci basta segnalare qualche episodio che mostri come anche gli dei, lungi dall'essere bacchettoni, fossero sensibili a quegli stessi stimoli che poi furono uno dei pezzi forti nella Commedia Attica Antica di Aristofane.

Partiamo dalla Grecia, dunque. Una terra che aveva un dio preposto al sarcasmo (Momo), lungi dagli ideali di Winckelmann di serenità e compostezza "apollinea", lasciava spazio anche alla risata discinta e scomposta: ci piacerebbe dire "dionisiaca", un valore universale e fondamentale.
La storia è ben nota in alcune sue parti: Ade, signore del regno dei Morti, si innamora di Persefone, la rapisce in Sicilia (è questo il mito all'origine della fuitina?), e la porta con sè sotto terra.
La madre di Persefone, Demetra, dea delle messi mature, va alla ricerca della figlia, e tutta la natura deperisce. La dea madre è inconsolabile: pensa solo alla figlia scomparsa, ed erra ovunque, in lacrime; una roccia su cui si sedette per riposare, divenne nota come la "Pietra senza Gioia".
Giunge finalmente a Eleusi, accompagata dal piccolo Iacco, il dio che in seguito avrebbe guidato i cortei dei Misteri Eleusini.
Due sono a questo punto le versioni: la prima dice che la dea entrò nella reggia di re Celeo e Metanira. Qui delle vecchie sono sedute, immaginiamo nella sala del focolare centrale, la accolgono, come sempre si accoglieva lo straniero in quelle terre. Le vecchie la vedono triste, cercano di consolarla, ma la dea non risponde agli incoraggiamenti, perchè troppa tristezza alberga nel suo animo.
Allora la serva Iambe, figlia di Pan e della ninfa Eco, inizia a scherzare, componendo poesie secondo quel metro chiamato, appunto "Giambico", che sarà poi tipica delle poesi di insulto più o meno divertenti (meno per chi le riceveva, ovvio). E la dea finalmente ride.
La seconda versione (ma Robert Graves, nei suoi "Miti Greci" la mescola alla prima) narra di come Demetra si fermò a casa di Baubò, moglie di Disaule. La donna offrì alla dea in lacrime una minestra d'orzo profumata alla menta, ma Demetra, troppo addolorata anche per mangiare, la rifiutò. Allora Baubò, per distrarre la dea o per manifestare il suo disappunto, si sollevò la veste e... mostrò alla dea il posteriore. Poi finse di avere le doglie, si sdraiò per terra e da sotto le gonne tirò fuori Iacco, come se lo avesse appena partorito. Il dio balzò in grembo alla madre e la baciò.
A questo punto la dea rise, accettò la minestra e la natura ebbe una breve ripresa proprio grazie alla risata di Demetra: la dea insegnò a Trittolemo, figlio di Baubò e Disaule i misteri dell'agricoltura.
Secondo altri Trittolemo era invece figlio di Celeo e Metanira, e Baubò sarebbe stata la sua balia.

Nella lontana e fredda terra dei Vichinghi, chi può avere meno voglia di ridere di una gigantessa delle montagne appena orfana, gonfia di desiderio di vendetta, e che per la propria precipitazione ha preso come marito non il dio più bello, ma un marinaio che di montagna non ne vuole proprio sapere?
Stiamo parlando, ancora un volta di Skadhi, e della sua richiesta di guidrigildo per la morte del padre Thjazzi, ucciso dagli dei di Asgard, gli Aesir.
Altrove abbiamo narrato del concorso di bellezza maschile istituito per ricompensare la gigantessa della morte del padre, ma tra i patti che dovevano riportare la pace tra Skadhi e gli Aesir, era incluso anche che gli dei del Nord dovessero far ridere la gigantessa.
Una "missione impossibile", appunto: abbiamo appena descritto la tutt'altro che favorevole disposizione d'animo della gigantessa... ma Skadhi non aveva fatto i conti con Loki.
Un bel tipo, Loki: in grado, per pura cattiveria, di far morire il dio più buono che esistesse, di partorire il destriero di Odino dopo essersi trasformato in cavalla femmina (!!!), di travestirsi da damigella nuziale (!!!!) e flirtare con un gigante, o di fare uno scherzaccio come tagliare i capelli dorati di Sif.
Loki era stato uno dei motori della vicenda che aveva portato alla morte di Thjazzi, e ora toccava a lui trovare la soluzione!
Loki inventa qualcosa di assurdo, di paradossale, qualcosa pieno di umorismo greve e pecoreccio, ci verrebbe da dire: fissa l'estremo di una corda alla barba di un caprone e l'altro capo... ai propri testicoli.
Così, quando il caprone si muove, Loki urla di dolore e dà uno strattone; questo strattone tira la barba del caprone, che bela per il male che gli fa, e tira a sua volta...
Va bene: se cerchiamo di immedesimarci in Loki, non è che ci sia tanto da ridere in questo dolore alternato. Ma uno dei principi della risata becera è proprio che ci divertono le cose assurde e dolorose capitate agli altri!
Dopo un po' che il giochetto del tiro alla corda continuava, Loki (come Iacco) salta in grembo a Skadhi, al che ella si fece una grande risata: la riconciliazione tra lei e gli Aesir era cosa fatta.

Una breve nota letteraria...
Lungi da noi impelagarci nella disputa sull'origine della Commdia Attica Antica e dei suoi legami con i canti osceni, e sulla teoria di un rapporto di magia simpatica tra esibizione della sessualità e fertilità del suolo da stimolare.
Ci basta ricordare come nell'Italia prima di Roma esistessero i fescennini, canti osceni che poi ebbero influsso sul teatro di Plauto, e come, cosa che farà storcere il naso a chi ama la "commedia borghese" o quella "impegnata", la tradizione della "volgarità comica" si estende da allora fino ai nostri tempi: i suoi ultimi epigoni sono la commedia scollacciata dei film anni '70, gli spettacoli del Bagaglino e i vari sequel di Porky's e American Pie.
Se poi fra duemila anni, American Pie diverrà il mito fondante di un culto...

sabato 3 ottobre 2009

MITOLOGIA CINESE - Figli della pietra


In un precedente post abbiamo narrato la vicenda di Ullikummi, nato da un rapporto tra il padre Kumarbi e una pietra di diorite. Ma non è l'unico eroe mitloogico a essere nato da uuna roccia.

Nella lontana Cina, si racconta di Yu il Grande, uno dei primi imepratori della Cina: di lui alcuni dicono che sarebbe nato dalla pietra (o da un cavallo divino), ma tutti concordano che suo figlio nacque da una roccia.

Si racconta che, dopo aver creato i canali che fecero defluire le acque del grande diluvio, Yu decise di prendere moglie. Una volpe bianca con nove code lo condusse da una ragazza: si trattava della figlia di T'u-chan, la montagna di terra.
L'unione fu felice, ma la sposa ignorava la divinità del marito.

Mentre la donna era incinta, Yu proseguì la sua opera di scavo di nuovi canali, e per velocizzare il lavoro, si trasformò in orso.
Quando la donna vide l'orso, fuggì terrorizzata, e il suo terrore aumentò quando l'animale la inseguì... ovviamente per fermarla e cercare di spiegare ciò che accadeva. La donna alla fine crollò esausta e si trasformò in pietra.
Inorridito, Yu salì sulla roccia, vi bussò sopra e le ordinò di consegnargli suo figlio. Il masso si aprì in due, e ne venne fuori il figlio di Yu, che fu chiamato Chi.
Divenuto adulto, Chi aiutò il padre nella sua opera di canalizzazione, uccidendo i mostri che erano apparsi durante la grande alluvione. Divenuto veccchio, Chi fu eletto imperatore dopo il padre, dando così l'avvio alla Prima Dinastia del Celeste Impero: la dinastia Xia.

domenica 20 settembre 2009

MITOLOGIA DEL MEDIO ORIENTE - Le strane generazioni di Kumarbi

Alcune nascite della mitologia greco-romana lasciano sempre un po' stupiti: da Dioniso\Bacco partorito dalla coscia di Zeus\Giove, ad Atena\Minerva che nasce dalla testa del re degli dei, abbiamo una lunga sequenza di parti davvero singolari.
Come dimenticare poi la Madre Terra messa incinta di Erittonio da un batuffolo di lana sporco dello sperma di Efesto? O Pegaso e Crisaore, figli di Poseidone nati dal corpo decapitato della madre Medusa?

Da questi pochi esempi sembra che gli dei avessero la capacità del parto mostruoso, perchè la generazione divina è ben diversa da quella umana.

Così, altrettanto singolare è la nascita di Afrodite, dea dell'amore, dalla spuma del mare. Quando Crono detronizzò il padre Urano, lo castrò con un falcetto: gocce del sangue paterno caddero nel mare generando la dea... mentre altre gocce cadute sulla Madre Terra diedero vita alle Melie, le dolci Ninfe dei Frassini e a ben più mostruose creature come le Erinni e i Giganti.

A detta di studiosi come Robert Graves, autore del fondamentale "I miti Greci", alla base di questo mito ve ne sarebbe un altro più antico, diffuso tra gli Hurriti e gli Hittiti intorno al secondo millennio a.C.: la storia del dio Kumarbi.

Anche in questo caso si parte da una rivolta di palazzo contro il re degli dei: Alalu regna per nove anni sugli dei, ma il suo coppiere Anu il dio del Cielo lo sconfigge e prende il suo posto. Kumarbi prende il posto di coppiere del nuovo re.
Dopo altri nove anni nasce un conflitto tra i due: Kumarbi è detto "prole di Alalu", e forse in questo si deve vedere la ragione della guerra. Nello scontro lo splendore di Kumarbi è tale che Anu non lo tollera, e si dà alla fuga.
Kumarbi insegue il suo sovrano e, come dicono i testi, "gli morde le ginocchia e ingoia la sua virilità" (sic!). Ma Anu ha già preparato la sua vendetta: Kumarbi sarà sì il nuovo re, ma è anche incinta di tre grandi dei, il cui padre è Anu!
Kumarbi sputa subito il tutto sul monte Kanzurra, ma la terra dove cade il suo sputo genera i tre dei profetizzati: Tesub, dio della Tempesta, Aranzah la Tigre, dio del Fiume, e Tashmishu, il grande dio.
Tesub detronizza Kumarbi e diventa nuovo re degli dei.

Kumarbi però non cede, e si prepara a una "restaurazione" con un'altro accoppiamento singolare: si allontana dalla città degli dei, raggiunge un'enorme roccia e, sognando di generare un mostro che schaccerà il suo rivale, giace con la roccia come si farebbe con una donna. da questo strano rapporto nasce Ullikummi, il gigante di diorite, destinato a vendicare il padre rovesciando Tesub.
Per questo Ullikummi viene allevato dalle Irshirra, le dee serve di Kumarbi, che lo pongono sulla spalla destra di Upelluri (il Mondo). Ullikummi cresce, e presto la sua altezza raggiunge la dimora degli dei, il Kuntarra.

Preoccuapti, Tesub e il dio del Sole si riuniscono in conciliabolo per distruggere l'avversario, ma le prime contromosse falliscono: Ullikummi è insensibile al fascino di Ishtar, la dea dell'Amore, sconfigge Tesub e la statura del gigante di diorite costringe Hebat, sposa di Tesub, ad abbandonare il suo tempio.
A questo punto gli dei cambiano strategia: invece che affrontare direttamente Ullikummi, gli tagliano i piedi, impedendogli di avanzare contro di loro e togliendo il suo contatto con la terra. Grazie al "coltello che separò il cielo dalla terra" possono finalmente uccidere Ullikummi e ristabilire il trono di Tesub.

Secondo altre versioni riportate da Graves in appendice alla narrazione del mito dell'evirazione di Urano, lo sputo di Kumarbi avrebbe generato una dea, mentre il dio stesso era stato ingravidato dallo sperma di Anu, e aveva concepito il dio dell'amore... che gli fu staccato dal fianco da Ea, il fratello di Anu.
Lo stesso Ea avrebbe usato il famoso coltello con cui furono sepratai cielo e terra per decapitare Ullikummi.
Infine il povero Kumarbi partorisce un dio dalla sua coscia: costui guidava il carro del temporale trainato da un toro e accorse in aiuto di Anu.

Alcune note sparse...
Il mito di Ullikummi che tenta la scalata alle sedi degli dei per detronizzare il dio della tempesta sembra essere alla base di altri miti greci conme quello dei giganti Aloadi o di Tifone.

Il contatto di Ullikummi con la terra, che gli permette di crescere continuamente, è in una certa misura simile alla vicenda di Anteo, che, nella lotta, ritrovava le forze non appena toccava il suolo. Eracle lo uccise stritolandolo a mezz'aria.

Ullikummi, nato da una roccia, trova un lontano parente nel mito cinese del figlio di Yu il Grande... la cui storia sarà l'oggetto del possimo post.

domenica 13 settembre 2009

MITOLOGIA COMPARATA – Fiori di melo, tempo di spose 3


Abbiamo parlato di come in alcuni miti indoeuropei ed in particolare greci, le mele siano legate al matrimonio.
Oggi racconteremo due storie in partenza tanto simili da sembrare l'una la variante dell'altra. In esse una mela cotogna e un altro pomo (non d’oro) sono lo spunto per narrare due matrimoni. E' pur vero che queste due vicende più che al mito sembrano appartenere alla sfera della narrazione amena, ma la dea Artemide (solitamente non legata alle nozze) vi svolge un ruolo essenziale.

Ermocare Ateniese si innamorò di Ctesilla, una giovane di Ceo figlia di Alcidamante. L’Ateniese scrisse su un pomo un giuramento nel quale la ragazza si impegnava davanti ad Artemide a sposare nessun altro se non Ermocare, e lo gettò dentro il tempio di Artemide dove in quel momento si trovava Ctesilla.
La ragazza, presa dalla curiosità, raccolse il pomo e, incautamente, lesse a voce alta ciò che vi era scritto sopra: così si trovò legata al giuramento, e a nulla servì lanciare lontano il pomo, in preda alla vergogna.
Ermocare, rispettoso delle tradizioni, andò a trovare Alcidamante, e chiese in sposa Ctesilla: il padre della ragazza acconsentì, ma rimandò le nozze.
Passò del tempo: Alcidamante dimenticò la promessa e decise di fidanzare la figlia a un altro. Ma mentre nel tempio si svolgeva il rito, Ermocare entrò. Questa volta Artemide in persona intervenne, e Ctesilla si innamorò di Ermocare.
Con l’aiuto della nutrice di lei, i due giovani fuggirono ad Atene, e lì nacque loro figlio. Ma Artemide volle punire Alcidamante per non avere rispettato il giuramento suo e della figlia: Ctesilla morì di parto.
Durante i funerali, si vide una colomba levarsi dal letto funebre: il corpo di Ctesilla era scomparso. Quando Ermocare e gli abitanti di Ceo consultarono l’oracolo, esso disse loro di tributare un culto ad Afrodite Ctesilla, nuovo nome della giovane divinizzata.

La vicenda di Aconzio e Cidippe sembra ricalcata sulla vicenda di Ermocare e Ctesilla (o viceversa): i due giovani provengono dalle stesse città, seppure invertite; quasi identico è il modo in cui avvenne la loro unione e i luoghi dove ci fu il giuramento non voluto; però la conclusione è più lieta, e questa versione è più diffusa tra gli scrittori.
Si dice che un giovane di Ceo, tal Aconzio, fosse molto bello ma appartenente a una famiglia agiata ma non nobile. Andato alle feste di Delo, vide Cidippe, bella quant’altre mai: fu il classico colpo di fulmine... a senso unico.
Cidippe non si era neppure accorta del giovane, e nel corso dei festeggiamenti si recò al tempio di Artemide. Aconzio l’aveva seguita: il giovane aveva trovato una mela cotogna, e con la punta di un coltello vi aveva scritto sopra la seguente frase: “Giuro sul tempio di Artemide di sposarmi con Aconzio”; entrato nel santuario lanciò il frutto a Cidippe.
L’ingenua ragazza, incuriosita, lesse a voce alta la frase, e così fece un involontario giuramento alla presenza della dea.
Non sappiamo in realtà se Cidippe fosse disponibile a corrispondere all’amore di Aconzio, di certo il padre non ne sapeva nulla e, da buon padre ateniese, si diede da fare per trovare marito alla figlia.
Ma per tre volte, ogni volta che il padre organizzava una cerimonia di fidanzamento per lei, la ragazza si ammalava tanto gravemente che il rito doveva essere rinviato.
Appena ciò avveniva, Cidippe tornava sana.
Aconzio nel frattempo si struggeva d’amore per la ragazza, e qualcuno giunse addirittura a sospettare che avesse gettato un maleficio su Cidippe. Ma l’oracolo di Delo svelò al padre di lei la verità: la malattia era mandata da Artemide ogni volta che Cidippe stava per venire meno al suo inconsapevole giuramento.
Così il padre, prese informazioni sulla famiglia di Aconzio e trovato che non c’era nulla di indegno nell’imparentarsi con essa, acconsentì alle nozze.
Pare che i due sposini vissero insieme felici e contenti.

Nota: che sia un caso che la legge di gravità di Newton, che regola l’attrazione tra i corpi, sia stata leggendariamente scoperta grazie a una mela?

giovedì 10 settembre 2009

MITOLOGIA COMPARATA – Fiori di melo, tempo di spose 2


Proseguiamo l’esplorazione dello strano legame che unisce il mito relativo al matrimonio con una mela, spesso e volentieri d’oro.
Stavolta non parleremo, però di furti di mele d’oro, anche se l’astuzia non manca.

Abbiamo già raccontato della mela d’oro con sopra scritto “Alla più bella”: la perfida Eris, dea della discordia, la lanciò sul tavolo del banchetto nuziale di Teti e Peleo, cui assistevano tutti gli dei.
Un matrimonio, una mela d’oro... e come conseguenza la Guerra di Troia!

Ma il legame più stretto tra mele d’oro e matrimonio appare nel mito di Atalanta, dove le mele sono il mezzo che porta al matrimonio di un vergine riottosa.
Atalanta era una vergine cacciatrice, e come accadeva per altre donne della mitologia greca (o della fiaba) era assai difficile da sposare: secondo alcuni per una profezia che minacciava la sua trasformazione in animale dopo le nozze, secondo altri per devozione alla dea Artemide, altra vergine cacciatrice.
Se in altri miti per il padre a non volere dare la mano della figlia (e il regno) a un futuro genero, il caso di Atalanta era simile a quello della lirica Turandot: era la donna stessa a non volersi sposare, e anzi lei imponeva ai pretendenti una prova impossibile, con la condizione che se lo spasimante non avesse avuto successo sarebbe stato ucciso.
Atalanta era velocissima: così sfidava i pretendenti in una gara di corsa, si dice che desse al pretendente un leggero vantaggio, e che lo inseguiva con una lancia, con la quale lo uccideva non appena lo raggiungeva. Ormai molti erano stati battuti e uccisi, quando Ippomene (o, secondo altri, Melanione) decise che avrebbe tentato al prova.
Dalla sua parte aveva l’astuzia della dea dell’amore, Afrodite, sempre disponibile a sabotare i propositi di castità dei fedeli di Artemide. La dea dell’amore aveva dato al giovane tre pomi d’oro, si dice provenienti dal Giardino delle Esperidi, suggerendogli la strategia: ogni volta che Atalanta si avvicinava, Ippomene lasciava cadere una mela d’oro; Atalanta, curiosa, forse innamorata, o semplicemente avida (e se fosse così il mito avrebbe già i connotati maschilisti odierni delle teorie sulle ragioni di alcuni matrimoni), per tre volte si chinò per raccoglierne una, perdendo il ritmo, la gara... e lo stato di nubile.
Il matrimonio si celebrò, e pare che Atalanta, alla fine, non ne disprezzasse le gioie. Da vergine cacciatrice divenne un’amante fin troppo appassionata: durante una caccia lei e il marito entrarono in un santuario di Zeus (ma secondo altri si trattava di un Tempio della Madre degli Dei Cibele) e non riuscirono a trattenersi dal... “famolo in un luogo strano”. Sta di fatto che la divinità cui apparteneva quel luogo sacro punì entrambi, trasformandoli in leoni.
I Greci credevano che, in conseguenza di ciò, i leoni non si accoppiassero tra di loro, ma solo con i leopardi.

Nota: si dice che il famoso frutto proibito mangiato da Adamo ed Eva fosse una mela. E si dice anche che la conoscenza che esso diede fosse quello della sessualità...

lunedì 7 settembre 2009

MITOLOGIA COMPARATA – Fiori di melo, tempo di spose 1


Le future spose indoeuropee sapevano bene quando sarebbe arrivato il momento delle sospirate nozze: non tanto in occasione dei fiori d’arancio (scoperti quando i migranti giunsero sulle rive mediterranee) ma quando le mele arrivavano sui rami degli alberi.

In effetti vari miti legano un matrimonio alla presenza di mele più o meno dorate. Alcuni narrano del furto di una o più mele d’oro regalo di un matrimonio o come presupposto del matrimonio stesso.

Narra il mito greco che la mela d’oro poteva essere un regalo nuziale. Si racconta che, in occasione del matrimonio di Zeus ed Era, la Madre Terra avesse regalato a sua nipote un melo che produceva frutti dorati; Era, la regina degli dei olimpi, aveva tanto gradito il dono da piantare il magico albero nel suo giardino che si trovava a Ovest, alle pendici del Monte Atlante. Lì alcune versioni dicono che le Esperidi, figlie di Atlante, si occupavano del giardino, ma secondo altri in realtà le fanciulle divine rubavano abusivamente le mele. Sta di fatto che la dea pose a guardia del suo albero il drago Ladone: solo Eracle, nel corso di una sua celebre fatica, poté cogliere di nuovo quei frutti.

Un giardino con mele d’oro (con furto allegato) compare anche in una leggenda caucasica, ricordataci nel Libro degli Eroi di Dumèzil, come premessa di una storia legata a un matrimonio.
Si dice che nel giardino dei Narti crescesse un melo, i cui fiori erano azzurri come il cielo che produceva una sola mela alla volta: ed era una mela d’oro, brillante come il fuoco. Ogni vola che il frutto veniva staccato, in una mattina ricresceva.
Si narra che il magico frutto fosse in grado di guarire ogni ferita e malattia, ma per quanto i Narti facessero la guardia, qualcuno durante la notte riusciva sempre a rubarlo.
Quando il turno di guardia toccò all’eroe Uaerhaeg questi inviò nel giardino i figli Aeshar e Aeshaertaeg. Essi riuscirono a vedere che al momento in cui “giorno e notte stavano per separarsi”, tre colombe si posavano sull’albero per prendere la mela. I due campioni Narti ne ferirono una e, seguendo le tracce di sangue, giunsero al regno sotto il mare di Donbettyr, il genio delle acque.
Lì Aehsaertaeg sposò Dzerasse, la figlia del genio che si tramutava in colomba assieme alle sorelle per rubare le mele.

Un giardino e delle mele d’oro (dell’immortalità) ci sono anche nel mito del rapimento di Idhunn. I Vichinghi credevano che gli dei fossero sì immortali, ma non eternamente giovani e potenti: per restare tali, essi dovevano nutrirsi delle mele d’oro che la dea Idhunn, moglie del dio-poeta Bragi, raccoglieva nel giardino degli dei.
Era successo che Loki aveva fatto uno sciagurato patto col Gigante Thjazzi: per riavere la libertà, il briccone di Asgard aveva dovuto promettere che avrebbe rapito la dea della giovinezza (e le sue preziose mele) e l’avrebbe consegnata al Gigante. Cosa che accadde.
Le conseguenze furono disastrose: gli Aesir, gli dei del Nord, invecchiavano e incanutivano. Facendo due più due, scoprirono che Loki era stato l’ultimo a parlare con la dea. Così, dopo una serie di minacce, il Briccone dovette partire alla volta della reggia di Thjazzi per recuperare Idhunn e riportare la giovinezza agli dei.
E il matrimonio? C’è anche qui: Thjazzi morì nell’inseguire la preda che gli era stata sottratta, e sua figlia Skadhi giunse ad Asgard cercando vendetta. Per placare la furia della gigantessa, gli dei le promisero un marito inc mabio del padre ucciso. Questio marito, dopo il concorso di “bellezza podalica” narrato nel post del 16 giugno 2009, fu Njord, il dio del mare.
Poi il matrimonio non fu felice, ma evidentemente la presenza delle mele non garantisce il successo di un’unione!

Nel prossimo post racconteremo come delle mele (non rubate) entrino a far parte di alcune vicende della mitologia greca che sarebbero sfociate in un matrimonio.

Nota: ok, forse non c’entra nulla col mito, ma come dimenticare che il promesso sposo della dottoressa Elliot Reid nel serial tv Scrubs, interpreta il ruolo di un ladro di mele messicano nei loro giochini prematrimoniali???? Archetipi collettivi che a volte ritornano?

venerdì 4 settembre 2009

MITOLOGIA COMPARATA - Prima trovare, poi vendicare



Nel vasto campo della mitologia che sconfina nella fiaba (o forse è il contrario?), uno spazio importante lo merita, ovviamente, la prima impresa del futuro eroe. Raramente è il vertice della sua carriera (se vogliamo, Beowulf che affronta Grendel, in questo senso, è una "quasi eccezione"), ma indica il rito di passaggio che fa di un ragazzo "con grandi potenzialità" un vero eroe.

Spesso questa prima impresa è un collegamento con ciò che è accaduto in precedenza, è la scoperta dei suoi veri ascendenti. Ciò avviene contestualmente al ritrovamento della spada del padre, o dell'atto simbolico del riforgiarla: riunendo ciò che era spezzato, il giovane si ricollega ai suoi antenati, e sarà pronto ad affrontare la vera grande impresa cui è destinato, talvolta una vendetta.
In queste vicende spesso il padre è morto (o assente) ed è la madre a portare il ricordo della missione da compiere o del modo per riavere l'arma.

Qui di seguito vi presenteremo alcuni esempi tratti dal mondo mitico di ieri e di oggi.

Partendo dalla Cina, abbiamo lasciato in sospeso la vicenda del figlio del fabbro Kan Chiang. In un post precedente avevamo raccontato come Kan Chiang aveva fabbricato due spade meravigliose, ma non fidandosi del committente (il crudele re di Chu), aveva portato al sovrano solo una spada, e aveva nascosto l'altra: se il sovrano si fosse dimostrato onesto, Kan Chiang gli avrebbe dato anche la seconda spada, se invece si fosse dimostrato traditore, la seconda spada sarebbe servita al figlio per compiere la vendetta.
Come era prevedibile il Re di Chu fece uccidere Kan Chiang, e quando suo figlio (ahinoi! rimasto anonimo nella narrazione) fu abbastanza grande, la madre Mo-ye gli raccontò la storia della morte del padre e anche le indicazioni lasciate da questi per ritrovare la spada.
Ovviamente si trattava di un enigma: "Se esci dal portale della casa e guardi verso le montagne a Sud, scorgerai un pino che cresce sopra una roccia. In quell'albero è nascosta la spada".
Ma come trovare il nascondiglio? A sud della casa non c'erano montagne nè pini di sorta!
Poi, un mattino, mentre rifletteva sul messaggio misterioso, finaomente capì: il portale, che dava sul cortile, era ricoperto da un tetto, retto da due pilastri di legno di pino che erano collocati sopra un'architrave di pietra.
Il messaggio era finalmente chiaro: presa un'ascia, il giovane colpì il pilastro più vicino alla casa spaccandolo in due: al suo interno trovò la spada.

In Grecia si narrava che Teseo era figlio di Etra, figlia del re di Trezene. Suo padre si diceva fosse Poseidone, ma per altri in realtà egli era figlio di Egeo, re di Atene: si diceva che Etra avesse avuto rapporti con Egeo mentre questi era ubriaco.

Sta di fatto che i nemici di Egeo, figli di suo fratello Pallade, potevano minacciare la vita del bambino per assicurarsi il trono di Atene: così Egeo impose ad Etra di rivelare al figlio la verità sulla sua origine solo se questi si fosse dimostrato un potenziale eroe. La madre lo avrebbe capito se il figlio fosse stato capace di sollevare il pesante masso lungo la via tra Trezene ed Ermione, sotto cui Egeo aveva nascosto i suoi sandali e la sua spada. Questi oggetti avrebbero inoltre permsso al padre di riconoscere il figlio quando questi fosse giunto ad Atene.
Quando Teseo nacque, fu soarsa la voce che egli era figlio del dio Poseidone. Fu solo quando ebbe sedici anni che Etra lo portò alla roccia, narrandogli la sua vera origine: ovviamente Teseo sollevò con facilità il masso, e si mise sulla via dell'Attica e verso la gloria.

Nel lontano Nord, Sigurd figlio di Siegmund l'ultimo dei Volsunghi, veniva allevato dal suo patrigno Alf. Quando crebbe, fu messo al lavoro nella fucina di Reginn, che aveva imparato il mestiere dai nani, e che vedeva in Sigurd il mezzo per impadronirsi delle ricchezze custodite da suo fratello Fafnir, tramutatosi in drago.
Sifgurd chiese a Reginn di forgiargli la migliore spada del mondo, in grado di forare le spesse scaglie di ferro di cui era rivestito il drago, e Reginn promise che avrebbe fatto tale spada, mettendo insieme tutta l'abilità dei nani e la magia delle rune.

Forgiata la spada la offrì a Sigurd: questi la brandì e colpì con violenza l'incudine su cui era stata forgiata. Ovviamente la spada si ruppe in mille pezzi, e così accadde per una seconda spada forgiata dal fabbro.
In soccorso di Sigurd arrivò la madre Hjordis. Ella consegnò al figlio i tre pezzi in cui si era spezzata la spada del vero padre, Siegmund, e ricordò le ultime parole del marito: quando il figlio fosse divenuto abbastanza grande, avrebbe potuto riforgiare la sua spada, chiarla Gram e con essa divenire un eroe ancora più grande del padre.
Sigurd portò i frammenti a Reginn: quando il fabbro riscaldò i pezzi di metallo e li pose sull'incudine, questi embrarono accostarsi e saldarsi per volontà propria. Così rinacque Gram, spada in grado di tagliare un'incudine in due, e compagna di Sigurd nelle sue imprese.

Venendo a tempi più moderni, come dimenticare che J.R.R.Tolkien, l'autore di mitologia più grande del secolo ventesimo, narra che Aragorn figlio di Arathorn meritò di tentare l'impresa di diventare re del Reame Unificato nella Terra-di-Mezzo solo dopo che la spada del suo antenato Elendil fu riforgiata col nome di Narsil?

E non sembri eresia inserire Star Wars di Geroge Lucas come esempio di fiaba o mitologia moderna, poichè della fiaba (ma anche del mito) segue le strutture.
Così la vicenda di Luke Skywalker ha una sua svolta quando il ragazzo riceve dal maestro Obi-Wan Kenobi la spada (laser) che fu del padre: solo quando saprà padroneggiarla, unendo all'abilità manuale l'uso della Forza, il giovane potrà divenire il Cavaliere Jedi che salverà Galassia Lontana Lontana dalla minaccia del Lato Oscuro, compiendo ciò che al padre non era riuscito.

lunedì 31 agosto 2009

MITOLOGIA CINESE - Il sesso della Spada

Niente scandalo, tranquilli. Invece che l’uso erotico di oggetti dalle valenze più o meno falliche, oggi vi parliamo di un aspetto particolare della mitologia cinese: il sesso degli oggetti di metallo.

Badate bene: non si tratta di una pura considerazione grammaticale (come ad esempio accade in italiano, dove il termine "spada" è femminile e il "fioretto", è maschile), ma di un vero e proprio sesso dell’oggetto, a prescindere dalla parola usata per indicarlo.

Così in Cina possiamo avere campane di metallo di sesso maschile o femminile (a entrambi nel Celeste Impero piace volare per aria o nascondesi sotto i ruscelli), e altresì accade per i tamburi di bronzo: da ignoranti occidentali non possiamo dire se in effetti la distinzione sia basata su un suono più grave o più acuto.

Ma uno degli oggetti per eccellenza di tutti i miti, in Cina trova un nuovo aspetto: le spade magiche dovevano essere fabbricate tradizionalmente in coppia, una spada maschio e una femmina.
Ovviamente per produrre spade siffatte non basta il banale artigiano: serve un grande maestro-fabbro, e tutti gli dei partecipano al processo di fusione. Così i Draghi Chiao sostengono il forno, il Sovrano Rosso alimenta la caldaia, il Signore della Poggia bagna la lama al momento opportuno e il Genio del Tuono aziona il mantice.

Narra una leggenda che nel Regno di Chu vivevano due abili fabbri, Kan Chiang e Mo-ye, marito e moglie. Kan Chiang fu incaricato dal crudele Re di Chu di creare una coppia di spade, maschio e femmina.
Kan Chiang così raccoglie "il ferro dei cinque monti e l’oro delle dieci direzioni", sceglie il momento astrologico migliore, fa tutto secondo le regole, ma non riesce a fabbricare le spade.
Mo-ye allora ricorda al marito che il metallo può mutare solo se c’è il sacrificio di una persona. Così la moglie (ma per altri anche Kan Chiang fa lo stesso) getta nella fornace i propri capelli e le proprie unghie.
Nascono così due spade quale mai si vide altrove: tagliavano il ferro come il burro, e mandavano il riflesso della luna su un stagno in autunno. Erano tanto simili da poter essere scambiate tra loro, benché fossero una più larga e una più sottile; ma la differenza era talmente piccola che potevano essere riposte nello stesso fodero. Le spade furono chiamate come i fabbri che le forgiarono: Kan Chiang la spada maschio, più larga, e Mo-ye la spada femmina, più sottile.

Il fabbro Kan Chiang, però, diffida del Re: teme che alla consegna delle armi, il sovrano possa uccidere lui e la moglie per impedire che possano creare armi simili anche ai suoi nemici. Così nasconde la spada maschio e porta al Re solo la spada femmina, per metterlo alla prova.
Il re, che in effetti cercava solo una scusa per poter uccidere l'artigiano, fa uccidere il fabbro, accusandolo di aver prodotto solo una delle due spade richieste.

Mo-ye è però incinta. Al tempo opportuno nasce il figlio suo e di Kan Chiang, un figlio che cresce educato, forte, intelligente, ma con una strana caratteristica: ha le sopracciglia talmente distanti tra loro che la gente dice che tra l’uno e l'altro sopracciglio c’era la distanza di un piede!
Quando il ragazzo è abbastanza grande, secondo l’ordine che Kan Chiang le aveva lasciato, Mo-ye fa ritrovare al figlio la spada maschio, in un modo che vi narreremo in un prossimo post.

Il ragazzo giura vendetta contro il re, ma un sogno premonitore avverte il Re di Chu: egli vede un uomo, uguale al figlio di Kan Chiang, che lo minaccia con una spada lucente.
Così il sovrano pone una taglia sulla testa del ragazzo, che si deve nascondere tra i monti, incapace di trovare un modo per compiere la sua vendetta.

Nel rifugio del ragazzo, un giorno, per caso passa un viandante con cui il giovane figlio di Kan Chiang si confida. Il viandante racconta a sua volta di essere un guerriero senza patria, perché il Re di Chu ha invaso il suo paese: la vendetta del ragazzo sarebbe stata la vendetta del viandante.
Ma per riuscire ad avvicinare il re è necessario un piano che prevede un sacrificio: il viandante avrebbe mozzato il capo al figlio di Kan Chiang, e avrebbe portato la testa al Re, per guadagnarsi la fiducia del sovrano. Senza la minima esitazione è il giovane stesso a mozzarsi la testa, e il suo corpo decapitato offre la testa al viandante.

Presa la testa e la spada, il viandante è ricevuto dal Re, e mostra la testa mozzata del figlio di Kan Chiang. Il Re riconosce l'immagine che gli era apparsa in sogno, e ordina che la testa sia gettata ai cani. Ma il viandante suggerisce di bollirla: se era apparso in sogno al Re, il giovane doveva essere un demone, e la bollitura è l'unico modo per eliminare la sua influenza nefasta.
Così è fatto, ma la testa non si distrugge: anzi, gli occhi del giovane fissano chiunque si avvicini al calderone.
Il viandante persuade il Re a recarsi a vedere il prodigio: non appena il Re si sporge sul calderone, il viandante estrae la spada e mozza la testa al Re, facendola cadere nell'acqua bollente. Con una risata di trionfo anche il viandante si taglia la testa, e anche questa finisce nel calderone: solo allora le tre teste si sciolgono e si fondono tra loro, divenendo indistinguibili.

Così le teste sono sepolte insieme, e a ricordo dell'avvenuto sono eretti tre tumuli, detti "Le Tombe dei Tre Re".

In appendice due piccole note...
a) Il sacrificio che condurrà alla formazione della "testa fusa", evidentemente riprende il sacrificio necessario per la fusione del metallo: in alcune versioni, quando la fusione non funzionava, Kan Chiang rivela a Mo-ye che per forgiare una spada, il suo maestro aveva gettato la moglie nella fornace; secondo altre versioni assieme alla moglie, nella fornace si era gettato anche il maestro.
b) Il sacrificio richiesto dal viandante al figlio di Kan Chiang ricorda l’espediente usato dal guerriero Senza Nome per poter avvicinare il Re di Qin nel bellissimo film Hero di Zhang Yimou.

mercoledì 19 agosto 2009

GO(D)Ssip - E tu dove vai in vacanza?

Agosto, moglie mia non ti conosco... vale anche per gli dei?

Infatti non dobbiamo pensare che un compito stressante come quello di gestire poteri incommensurabili sia un lavoro a tempo pieno.
Forse che Superman, il più grande mito dei nostri giorni, non si ritira ogni tanto nella sua Fortezza della Solitudine per rilassarsi un po?

Allo stesso modo anche gli antichi dei qualche volta si prendono una pausa e vanno nei loro posti preferiti, a rilassarsi e a godersi ciò che la vita immortale permette.

In uno dei post precedenti abbiamo già accenato alla strana coppia del Nord, il marino Njordhr e la montanara Skadhi, separati dalle rispettive passioni per il mare e la montagna; anche se in questo caso, più che di vacanza, si può parlare di vita quotidiana.
Così il Vanir Njordhr si rilassa ad ascoltare il suono dei gabbiani e delle buccine sulle rive del porto di Nòatùn, dove le acque modellano i suoi piedi bellissimi, mentre la gigantessa Skadhi si ritira al fresco delle nevi eterne di Thrymheim, dove si allena allo sci (di fondo) e alla caccia con il suo infallibile arco.

Più a sud, gli dei greci, da buoni mediterranei, avevano un concetto di vacanza più simile al nostro: ogni tanto bisogna staccare dal proprio gravoso compito e darsi al godimento di piaceri.
Quale cosa migliore del ritirarsi in posti a noi cari dove nessuno ci disturba?

Così Febo Apollo ogni diciannove anni si reca presso gli Iperborei, nel paese "al di là del Vento del Nord" (George MacDonald imitante), dove il clima è temperato e la terra dà due raccolti l'anno.
Lì ci giunse per la prima volta giovanetto, sul suo carro trainato dai cigni, e ogni volta che ci torna, nel periodo tra l'equinozio e l'alzarsi delle Pleiadi, canta inni accompagnandosi con la lira.
Pare che l'origine della passione di Apollo per la terra degli Iperborei, riveli quanto sia mediterraneo e mammone il nostro dio! Infatti Febo scelse questo luogo... perchè era la terra dove era nata mammà Leto.
Insomma: il classico emigrante di seconda generazione che torna a fare le vacanze al paesello di famigghia.


Afrodite Citerea, nata dalla spuma del mare, predilige Cipro, la terra dove è particolarmente venerata. Lì si rifugia ogni volta che succede qualcosa di spiacevole: ad esempio dopo che il geloso marito deforme Efesto la catturò in una rete assieme al suo amante Ares, e la espose al ludibrio degli dei.

Le vacanze possono essere anche occasioni di trastullo gastronomico: Poseidone si reca ogni tanto presso gli Etiopi, che pare facciano dei sacrifici particolarmente succulenti. Quando è impegnato in queste degustazioni probabilmente non vuole essere disturbato per nessuna ragione.
Omero racconta che, in una di queste vacanze, Odisseo si mise in viaggio per tornare in patria. E sì che era in un periodo in cui i suoi rapporti col dio del mare erano per lo meno tesi... però Poseidone era impegnato, l'abbiamo detto, e così il re di Itaca potè sfuggire allo sguardo della divinità irata e giungere dall'isola di Ogigia quasi fino alla terra dei Feaci. Ma Poseidone, di ritorno dalla mangiata, si accorse di questa navigazione e gli scatenò conto una tempesta che fece naufragare l'eroe.
Forse quella volta aveva digerito male.

Anche gli dei possono approfittare delle vacanze per qualche restyling estetico.
Solo che, essendo divinità, non ricorrrono alla banale chirurgia estetica: Era, la regina dell'Olimpo, si immerge regolarmente alla fonte di Canato, presso Argo, e così, ogni volta che fa queste abluzioni, recupera la sua verginità.
Rapido, veloce, perfetto: altro che celebrity bisturi!

martedì 28 luglio 2009

A volte ritornano - Zeus in carne ed ossa!

Tempi strani, quelli estivi...
Sarà il caldo atroce, sarà la voglia di vacanza o di variare bevanda rispetto alla solita ambrosia, ma anche il divino Zeus è sceso dall'Olimpo a godersi una serata dedicata al cosplay.

Certo, c'è chi sostiene che si tratti di un mortale in carne (molta carne!) ed ossa, che ignaro del destino di Salmoneo, ha osato assumere le caratteristiche del padre degli dei...

E per di più in una versione più simile a quella del cartone animato Pollon che alla statua realizzata da Fidia!

Valutate un po... e consultate l'oracolo per scoprire cosa meditava sotto le sue cespugliose sopracciglia il Cupotonante


venerdì 17 luglio 2009

Catastrofi a scelta – La gloriosa fine degli Illustri Narti

Nel Libro Degli Eroi Georges Dumézil narra che, tra i miti degli Ossseti, popolazione caucasica di origine indoeuropea, spicca il ciclo relativo all’antico popolo dei Narti.
I Narti sono eroi dei tempi passati, meravigliosi e insieme terreni, dotati di caratteristiche soprannaturali, ma che vivono la vita degli uomini del Caucaso, con le stesse case, costumi, passioni.

Come gli altri popoli caucasici, anche i Narti amano l’eloquenza e la guerra, ma sono i più forti di tutti, e ben presto si stancano di combattere avversari troppo facili da battere. Così si mettono alla ricerca di un nemico più forte di loro, contro il quale valga davvero la pena lottare.
Ma, dopo una lunga e vana ricerca nel mondo, non rimane che sfidare Dio stesso.

E’ l’inizio della loro epica fine: i Narti si astengono da tutti i riti e le pratiche religiose, addirittura alzano le porte delle loro case, in modo che non capiti neppure casualmente di abbassare la testa e che Dio interpreti questo gesto come una sottomissione a lui.

Dio, infastidito, manda la rondine come messaggero, perché si informi sulle ragioni del comportamento dei Narti: ne ottiene solo un’ulteriore sfida, e l’invito a combattere contro di loro.
Dio a questo punto li minaccia: propone la scelta tra uno sterminio totale e una cattiva discendenza. I Narti accettano di mettere in gioco la loro stesa sopravvivenza: “Forse che abbiamo bisogno di vivere per sempre? – dice Urzymaeg, uno degli eroi del ciclo dei Narti – Quello che ci occorre non è una vita eterna, ma una gloria eterna!”.

La guerra è dichiarata, e Dio la combatte con mezzi soprannaturali.
Prima maledice i Narti, dicendo che il loro lavoro non produrrà più di un sacco di frumento al giorno. Ma i Narti allora lavorarono solo quanto era necessario per riempire un sacco al giorno, fermandosi subito dopo: semplicemente il periodo necessario per la lavorazione sarebbe stato più lungo, ma il cibo sarebbe stato assicurato.

Dio mandò una seconda maledizione: il grano dei Narti rimaneva verde di giorno e pronto alla mietitura solo di notte, e se pure si avvicinavano di notte, il grano tornava verde e inutilizzabile.
Allora i Narti costruirono le loro capanne vicino ai campi, e ingegnosamente crearono delle frecce con una punta biforcuta. Così la notte, senza uscire dalle loro capanne, tiravano le loro frecce e mietevano le spighe che rimanevano dorate.

Vissero così ancora un anno, poi rifletterono: non avevano forse detto loro stessi a Dio che una gloria senza fine era preferibile a una vita senza fine?
Così, invitti, ognuno scavò a propria tomba e vi si coricò, in attesa della morte.
Così perirono gli illustri Narti.