mercoledì 21 maggio 2014

Scudi Mitici - Secondo Intermezzo: Lo scudo di Marte



Non abbiamo dimenticato alcune “rubriche” rimaste in sospeso, seppur da molto tempo… Ecco così una nuova parte di analisi degli scudi mitici, che abbiamo incominciato a vedere QUI (Gli scudi dei Sette Contro Tebe), QUI (Lo scudo di Achille), QUI (Lo scudo di Eracle) e QUI (Gli scudi di Atena, Agamennone e Perseo)
 

GLI ANCILES E LO SCUDO DI MARTE

Oltre a quello di Atena di cui abbiamo parlato QUI c’è un altro scudo mitico e divino di cui, in realtà, abbiamo solo narrazioni sommarie: lo scudo del dio Marte.

Marte [1] era il dio che “accanto a Giove, era il vero dio principale e capostipite della popolazione italica” come illustrano dotti studiosi [2].
Egli appare più volte nel mito romano, e neppure la successiva identificazione con il sanguigno e irrazionale Ares, dio greco-tracio, poté cancellare nei romani la sua originaria figura: nei miti laziali è il padre di Romolo e Remo, protettore dei Re e della Città (Mars Pater o Marspiter così come esisteva Giova Padre = *Iou-piter>Iuppiter).

Il Marte italico era dunque padre ma anche dio dei campi (e della sorveglianza degli stessi) [3], della primavera (mese Martius) e della gioventù (ver sacrum), della luce e del tuono.
I suoi animali, da buon dio Indoeuropeo, erano il lupo (e infatti una lupa allevò i suoi due divini figli Romolo e Remo), il picchio e il toro, nonché il cavallo. Anche il gallo era un animale a lui sacro, visto le matrone romane sacrificavano questo animale in onore del dio.
Il dio, nella sua forma di Mars Gradivus [4] manifestò il suo favore facendo cadere il suo scudo dal cielo nel bel mezzo del Foro Romano.

Si era sotto il regno di Numa Pompilio, il secondo re (sabino) di Roma[5], assai noto per essere pius, cioè rispettoso del volere divino. Il re stava riorganizzando le leggi di quel branco di apolidi e ladroni che erano gli abitanti del Palatino: da buon saggio antico aveva incominciato con il fissare le norme religiose, grazie ai consigli della sua immortale amante, la Ninfa Egeria.
Era scoppiata un’epidemia, e il re cercava la pax con gli dei per poter salvare la città: fu allora che, secondo le tradizioni, il dio italico Mars Gradivus fece cadere lo scudo, per manifestare la sua approvazione e protezione.
La pestilenza cessò poco dopo.

Com’era questo scudo divino?
Si trattava di uno scudo bilobato, da quel che ci è dato capire con un modello simile ad alcune armi micenee, e il dio fece sapere che era il pegno dell’invincibilità di Roma.

C’era però un problema: la ninfa Egeria fece sapere che chi avesse avuto lo scudo sarebbe stato assai potente. Per evitare che qualche casata ne approfittasse o, peggio ancora, fosse rubato da vicini invidiosi, Numa cercò di mescolare le carte: incaricò Mamurio Veturio di forgiare undici copie perfette dello stesso, in modo che nessuno potesse distinguere l’originale dalle copie.
E così si arrivò al simbolico numero del dodici.

Lo scudo di Marte (assieme agli altri undici) fu conservato nella Regia, l’antica dimora di Numa, e divenne uno dei sette pignora imperii, le garanzie che Roma avrebbe dominato il mondo.
Gli scudi furono affidati a un collegio di sacerdoti chiamati “Salii” (i “Saltellanti”) perché, durante le feste in onore del dio, facevano una tipica danza col passo saltellante (ogni tre passi un saltello, da cui il ritmo del trium-pus > triumphus). Mentre danzavano, cantavano il Carmen Saliare, uno dei documenti più arcaici della lingua latina che ci sia arrivato (seppure in frammenti).

I sacerdoti Salii venivano scelti tra i figli di famiglie patrizie di origine Ramnes (i dodici Salii Palatini, leggendariamente istituiti da Numa per il culto di Marte) o Titienses (i dodici Salii Quirinales, istituiti da Tullo Ostilio e dedicati al culto di Quirino). Requisito indispensabile per ognuno di loro era che i loro genitori fossero ancora in vita al momento della scelta. La nomina era a vita, tuttavia era loro permesso di abbandonare l’ordine se avessero ottenuto un sacerdozio di maggiore importanza oppure una grossa carica pubblica [6]. Come nel caso di altri collegi decaduti, Augusto cercò di rivitalizzare anche questo sacerdozio

I loro riti, tenuti in Marzo e Ottobre, onoravano il Padre Marte e Quirino [7]: quest’ultimo era un dio dei sabini se accettiamo l'etimo che vuole il suo nome legato a curis, la punta della lancia o della spada; ma anche l'etimo più accettato, che lo lega ai Quiriti o alle *co-viria > curiae, le assemblee degli uomini (in armi) divisi secondo le antichissime tre tribù genetiche romane dei Ramnes (probabilmente di origine latina), Titienses (probabilmente di origine sabina) e Luceres (forse di origine etrusca). [8]

Sempre nella Regia erano conservate le dodici lance consacrate a Marte, le hastae Martiae, usate negli stessi riti: si credeva che se queste avessero incominciato a vibrare, sarebbe accaduto qualcosa di terribile.
Secondo la leggenda, le aste vibrarono la notte del 14 marzo del 44 a.C. quando Giulio Cesare, che ricopriva la carica di Pontefice Massimo, venne ucciso nel Senato.

Al termine dei loro riti, riposte le sacre armi, i Salii banchettavano in un modo talmente opulento da essere divenuto proverbiale: lo cita anche Orazio nella sua ode Nunc est bibendum (Odi, I, 37).


Alcune piccole note...
DUE COLLEGI E DUE CARMINA
Ed ecco qui brani del Carmen Saliare, come riportati da due dotti eruditi e antiquari latini: sono in versi saturni, i più antichi (e ancora soggetti a interpretazione sullo schema da parte degli studiosi).
Il dotto studioso che ha riportato il primo e il terzo nella sua opera De lingua Latina nei passi del capitolo VII 26, 27, è Marco Terenzio Varrone; il secondo frammento è invece riportato da Quinto Terenzio Scauro, che ha tramandato il secondo nel suo De orthographia.

I frammenti recitano:
(fragmentum 1)

(LA) « divum +empta+ cante, divum deo supplicate »       
(IT)« cantate Lui, il padre degli Dei, supplicate il Dio degli Dei »


(fragmentum 2)

(LA) « cume tonas, Leucesie, prae tet tremonti \ +quot+ ibet etinei de is cum tonarem »
(IT) « quando tuoni, o Dio della Luce, davanti a Te tremano \ tutti gli Dei che lassù ti hanno sentito tuonare »


(fragmentum 3)

(LA) « ...cozeulodorieso. \ Omnia vero adpatula coemisse. \ Ian cusianes duonus ceruses dunus Ianusve \ vet pom melios eum recum. »     
(IT) « ... \ ... \ ... di Cerere ... Giano \ ... »


I linguisti non sono stati in grado di tradurre la maggior parte del testo (quella presentata è una delle possibili traduzioni relativa ai primi due frammenti); i termini latini in esso riconoscibili sembra che citino il tuono, Giano, Giove e Cerere. La lingua usata è così antica che già nel I secolo a.C. Cicerone dichiarava di non essere capace di comprendere la maggior parte del canto in questione.

Il Tempio della Dea Dia, venerata dagli Arvali
Simile al Carmen Saliare era il Carmen Fratrum Arvale anch'esso in versi saturni. Si tratta di un inno rituale, redatto in un latino del VI –V secolo a.C. Esso era recitato durante le Ambarvalie, cerimonie religiose per i campi e, da quel che ci resta, possiamo dedurre che si trattasse di una preghiera rivolta ai Lari ed a Marte, affinché proteggessero gli uomini ed i raccolti. Così come accade per il Carmen Saliare, questa poesia era di difficile interpretazione già per i romani dell’età classica.
Alle Ambarvalie erano preposti i “Fratelli Arvali”, un collegio di (ancora una volta) dodici sacerdoti: essi avevano come insegne ghirlande di spighe e bende bianche; la loro funzione era quella di immolare gli animali rituali (si trattava di una suovetaurilia, ovvero il sacrificio di una pecora, di un maiale e di un toro) dopo averli portati per i campi, di fare libagioni in onore degli dei e poi di recitare il carme, accompagnandolo con danza. Non sappiamo se nella danza degli Arvali ci fossero saltelli o meno, ma il fatto che nel carmen sia citato “triumpe” (da cui deriva il ‘trionfo’) ci fa immaginare che si battesse tre volte il piede o ci fosse un ritmo ternario nella danza.
Il nome del collegio è collegato alle parole arvum o aruum, la “terra lavorata”. Plinio il Vecchio ci dice che questo collegio fu fondato da Romolo stesso, e i primi “fratres” furono lui stesso e gli undici figli di Faustolo ed Acca Larenzia, il pastore e la moglie che accolsero ed allevarono Romolo e Remo.
Il culto più arcaico era rivolto alla Dea Dia e a Marmar o Mavors, poi confluiti nelle figure di Cerere e Mars Pater.


SUL NUMERO DODICI
Il numero dodici ha un grande valore simbolico: dodici sono i mesi dell'anno, i segni dello Zodiaco, le tribù dell'Anfizionia Delfica, le tribù di Israele, le prime Leggi scritte a Roma (le Leggi delle XII Tavole), le fatiche di Eracle\Ercole, il numero dei Titani e delle Titanidi sommati insieme, il numero degli Apostoli, ma soprattutto le dodici grandi divinità olimpiche della mitologia greca: Zeus, Era, Poseidone, Demetra, Apollo, Artemide, Efesto, Atena, Ares, Afrodite, Hermes e Dioniso. Quest'ultimo prese il posto di Estia: con questa modifica la componente “maschile” prese il sopravvento nell'assemblea, perché già Atena votava sempre “secondo il padre”.

Dodici grandi dei si trovano anche nella religione romana, caratterizzata prima da triadi di origine etrusca (la triade Capitolina: Iuppiter, Iuno, Minerva) e triadi agrarie (Libero, Libera, Cerere): essi erano protagonisti dei “lettisterni”.
Il Lettisternio era una cerimonia sacra di origine greca, un rituale convito durante il quale si offrivano vivande alle divinità; esse erano adagiate su un letto (pulvinar) con il braccio sinistro appoggiato su un cuscino (pulvinus) così come accadeva ai convitati dei banchetti degli umani.
Si narra che il primo fu celebrato per otto giorni nel 399 a.C. per ordine dei Libri Sibillini (tanto per cambiare): gli dei onorati erano Apollo e Latona (quindi le due divinità di provenienza orientale erano già entrate nel pantheon romano, probabilmente col tramite degli Etruschi), Ercole e Diana, Nettuno e Mercurio, disposti a coppie su tre letti.
I Libri Sibillini avevano prescritto la cerimonia per rimediare a un’epidemia conseguenza di un inverno rigidissimo e di un’estate straordinariamente afosa, e il rito fu affidato al collegio dei duumviri sacris faciundis (pochi anni dopo divenuti decemviri sacris faciundis con metà del collegio composto da plebei; in età forse sillana divennero quindicemviri e Cesare aggiunse un sedicesimo membro), e contemporaneamente anche i privati imbandirono tavole per i passanti, chiunque essi fossero, e si astennero dalle liti; inoltre furono tolte le catene ai prigionieri, anche se Tito Livio piamente ci ricorda che in seguito

“ci si fece scrupolo di rimetterle a coloro a cui gli dèi avevano concesso quell'aiuto.”

(Ab Urbe Condita, V,13,4.)

Il lettisternio più ricordato è però quello del 217 a.C., una delle tante cerimonie fatte per avere il favore degli dei durante la guerra annibalica: si era subito dopo la devastante sconfitta del Lago Trasimeno, e Annibale era alle porte. Così si fece una supplicatio attraverso il lettisternio: durò tre giorni e fu compiuta a cura dei decemviri sacris faciundis.
Questa volta le divinità “invitate al banchetto” erano dodici, le maggiori della religione olimpica, seppur in versione Romana; forse in questa occasione alle divinità femminili furono date più convenientemente delle sedie invece dei letti.
Ennio, nei suoi Annales, cita i dodici dei e forse parlava proprio di questo avvenimento del 217 a.C.; li riporta in ordine sparso, probabilmente per esigenze metriche:

“Juno Vesta Menerua Ceres Diana Venus Mars
Mercurius Joui Neptunus Volcanus Apollo”


Da altre fonti abbiamo invece l’indicazione delle coppie divine, e scopriamo che a Roma esse avevano una distribuzione talvolta diversa da quella greca: si rimanda forse all’idea del sacrum coniugium.
Così, su sei pulvinari, si trovarono Giove e Giunone (la coppia regale per eccellenza); nel secondo Nettuno e Minerva; sul terzo Marte e Venere (forse non uniti per i loro amori adulterini narrati da Omero: se il guanciale era rappresentativo delle sorti di Roma, ecco che il dio Padre di Romolo e la dea madre degli Eneadi univano insieme il destino della città e del popolo); sul quarto Apollo e Diana; sul quinto Vulcano faceva coppia con Vesta (il legame era dato dal fatto che per entrambi il compito di pertinenza era il fuoco); sull’ultimo Mercurio e per Cerere (forse per l’affinità tra il commercio, il merc-atus protetto da Merc-urius, e i cereali di Cerere).
Le altre coppie sembrano sintomi della progressiva ellenizzazione della religione Romana: la coppia Nettuno-Minerva è specchio di quella greca Poseidone-Atena, associati in diversi miti (nella competizione per l’Attica, nella guerra di Troia).

Dumézil, seguito da altri, hanno cercato invece di interpretare i sei abbinamenti divini con altrettanti fenomeni naturali, o con elementi cosmici (l'aria, le nubi, la pioggia, il fuoco, il freddo, le messi, il mare) sebbene ciò sia stato contestato: secondo gli oppositori la cerimonia del 217 mostra l’affermazione di una religione che si era evoluta in culto di stato; i richiami del grande studioso di mitologia comparata paiono far ricorso a una sorta di senso religioso arcaico.

Il culto di Venere in quanto Aeneadum genetrix (e quindi del popolo romano) si ritrova già attestato dal proemio del De rerum Natura di Lucrezio, che fu contemporaneo di Cesare (morì nel 50 a.C.) ma quando Roma non era ancora sotto il controllo totale del dittatore.
A prescindere dall’interpretazione di Venere nella filosofia epicurea del poema, ricordiamo che sia Silla (Venus Felix) che Pompeo (Venus Victrix) esaltavano la dea come protettrice: Cesare probabilmente inserì la pretesa di discendere dalla dea attraverso Enea e suo figlio Ascanio\Iulo in un sentimento già diffuso. Il culto della dea (e quello di Mars Ultor, il Marte vendicatore dei cesaricidi) fu poi ampliato sotto Augusto.

I PIGNORA IMPERII
Racconta Servio nel suo commento a Virgilio che

«ci furono sette garanzie a tenere il potere a Roma: l'ago della Madre degli Dèi, la quadriga di argilla dei Veienti, le ceneri di Oreste, lo scettro di Priamo, il velo di Iliona, il palladio, gli ancilia »

Lo scettro di Priamo, il velo di Iliona e il Palladio (una statua di Atena\Minerva) furono presumibilmente lasciti di Enea nella sua fuga (anche se si narra che il Palladio originale fosse stato rubato da Ulisse prima della caduta di Troia: finché la statua fosse rimasta in città, Ilio non sarebbe mai caduta); la quadriga di argilla dei Veienti fu preda di guerra dopo la conquista della città Etrusca a opera di Marco Furio Camillo (nella stessa occasione fu portata la statua di Iuno Regina).

Le ceneri di Oreste destano qualche perplessità: si dice che il figlio di Agamennone morisse a Oresteia, la città fondata da lui durante il suo esilio da Micene (o Argo) e che fosse seppellito a Tegea. Le sue ossa non riposarono però lì per sempre. Le lotte tra Sparta e Tegea avevano visto i Lacedemoni perdenti; consultato Delfi (in età arcaica l’oracolo era decisamente filospartano) questi scoprirono che dovevano impossessarsi delle ossa dell’antico re.
Recuperate le spoglie, lunghe sette cubiti, esse furono portate a Sparta, dove furono seppellite presso il santuario delle Moire: e da allora gli Spartani vinsero ogni battaglia contro i Tegeati. Come poi da queste ossa si sia passato alle ceneri, e il legame tra Roma e Oreste è poco chiaro: una variante latina del mito, riportata da Servio, dice che Oreste morì ad Aricia (attuale Ariccia), in uno dei luoghi in cui si diceva ci fosse il culto di Artemide Taurica (si vedano i misteriosi legami tra Diana di Aricia, Virbio e il ramo d’oro del Rex Nemorensis che ci porterebbero troppo lontano… almeno fino al Ramo d’Oro di Frazer!), le sue ossa (e non le ceneri) sarebbero poi state portate a Roma e sepolte sotto il tempio di Saturno.
A meno che non si vogliano citare i mitici rapporti tra il regno dell’Arcade Evandro sul Palatino ed Enea, ricordando che Oreste era anche signore dell’Arcadia (dove si trova Tegea); ma Evandro dovrebbe essere contemporaneo di Enea e quindi di Agamennone, quindi una generazione prima di Oreste.

Quanto all’ago della Madre degli Dei, era la pietra nera di forma conica portata da Pessinunte a Roma su consiglio dei Libri Sibillini per scongiurare il pericolo di Annibale.
La Pietra è un oggetto che riveste notevole importanza nel romanzo Anno Mille (del sottoscritto!) per cui si veda QUI
https://www.facebook.com/Anno1000

SU QUIRINO
I Flamines Maiores, ovvero i flamini maggiori, il vertice della struttura sacerdotale romana delle origini, erano il Flamen Dialis (il Flamine di Giove), il Flamen Martialis (il flamine di Marte) e il Flamen Quirinalis (il flamine di Quirino).
Questi tre dei erano l’originaria Triade Capitolina, che poi, su influsso etrusco (Tini-Uni-Menrva) e greco si sarebbe trasformata nella triade Iuppiter-Iuno-Minerva (Giove, Giunone Regina, Minerva).
Come detto, Quirino fu successivamente identificato con Romolo divinizzato; la moglie di Romolo, Ersilia, fu ugualmente divinizzata col nome di Hora Quirini.

Il più antico santuario di Quirino era la rupe più alta del colle Quirinale, là dove si erano attestati i Sabini di Tito Tazio dopo la guerra conseguente al Ratto delle Sabine e la conquista del Campidoglio in seguito al tradimento di Tarpeia. Secondo la tradizione, Tito Tazio gli aveva dedicato un sacello sul Campidoglio (il che conferma la composizione della triade originaria), ma questo fu “exaugurato” (cioè perse il suo carattere sacro) in occasione della costruzione del tempio di Giove Capitolino al tempo di Tarquinio Prisco (tempio poi completato dal Superbo).
In seguito a Quirino fu costruito un tempio presso la porta Quirinale, seguì un secondo nel 293 a.C., dedicato da Lucio Papirio Cursore: lì era conservato il trattato fra Roma e la città di Gabii, scritto su una pelle di bue che copriva (guarda un po’!) uno scudo.
Questo tempio fu restaurato da Augusto il 29 giugno 16 a.C.: il giorno della dedica divenne la nuova festa di Quirino.

Gli Ancilia sono l’oggetto “magico” di cui si occupa un’avventura del gioco di ruolo di ispirazione classica chiamato Lex Arcana. Secondo la trama, in un Impero Romano alternativo, a seguito di un oracolo gli scudi sono stati spostati sul Vallo Adriano. Per maggiori informazioni cliccate QUI.


SALTARELLI MITICI
Tralasciando per il momento tutta la problematica del dio del fuoco (o dio artigiano) zoppo (si vedano Efesto e Vulcano), qui ricorderemo solo brevemente il dio Indù Skanda: benché il nome di questo dio della guerra sia tradotto più spesso come “lo zampillante”, Santillana e Von Dechend (Il mulino di Amleto, cap.10) danno come traduzione alla lettera “colui che salta”, collegato al pianeta Marte.
Graves (I miti greci, 98.2-3) analizza la danza delle gru fatta a Delo (ma a imitazione di una simile fatta a Cnosso) da Teseo e dai suoi compagni destinati al Minotauro: secondo il mitologo, si tratterebbe di una “danza della pernice” che avrebbe riprodotto i movimenti “estatici e saltellanti” dell’animale


[1] Il nome del dio, Mars, probabilmente deriva dal più antico MAVORS o MAMERS: quest'ultimo ha un raddoppiamento iniziale del nome MARS, e da esso deriva quello di "MAMERTINUS", nome di un carcere romano, e MAMERTINI, i mercenari campani che fuorono il pretesto per la Prima Guerra Punica.
[2] Preller, Romysche Mythologie citato in R. Del Ponte, Dei e miti italici - Archetipi e forme della sacralità romano-italica, ECIG, 3a ed. 1988. Se lo trovate leggetelo: è uno dei libri che mi ha illuminato sulla religiosità italica, troppo spesso sottovalutata a favore dell'interpretatio graeca.
[3] Catone il censore, nel suo De Agri Cultura ci riporta una preghiera a Marte protettore dei campi da malattie e sciagure.
[4] lett. “colui che va”, probabilmente legato al concetto del ver sacrum, i nati durante una “primavera sacra” che dovevano partire a fondare una nuova città, su cui tanto di potrebbe\dovrebbe dire. In seguito ebbe il significato più ristretto di “colui che va in battaglia”, quando Marte fu identificato con Ares o, comunque, quando prevalse il suo aspetto bellicoso.
[5] In realtà Numa era il TERZO degli OTTO re di Roma! La notizia non stupisca, in quanto Tito Tazio fu per un certo periodo re di Roma assieme a Romolo: accadde dopo la guerra originata dal Ratto delle Sabine... salvo che il re sabino fu poi eliminato, probabilmente su ispirazione di Romolo stesso. Che si trattasse fratello, suocero o comunque collega, Romolo pare non avesse scrupoli ad eliminare coloro con cui avrebbe dovuto spartire il potere…
[6] Polibio racconta che Publio Cornelio Scipione, fratello dell’Africano, rallentò il suo esercito accampato sull’Ellesponto in attesa di far guerra ad Antioco il Grande di Siria: Publio era stato nominato membro dei Salii, e come tale non poteva lasciare il luogo in cui si trovava nei trenta giorni in cui i fratres facevano sacrifici. I tabù dei diversi sacerdoti romani sono un tema lungo, ma affascinante.
[7] Quirino era un antico dio della guerra: Plutarco parla di lui usando il termine Enyalios (“guerriero”, dio conosciuto nelle tavolette in Lineare B di Micene e poi declassato a soprannome di Ares); secondo il commentatore Servio sarebbe “il Marte che presiede alla pace”. Si potrebbe ipotizzare che, mentre Mars prendeva sempre più caratteri bellicosi in seguito all'identificazione con il greco Ares, Quirino conservava gli attributi “pacifici” originari del dio latino.
[8] La parola sarebbe etimo anche della città di Cures, in Sabina, fondata da Modio Fabidio, figlio appunto di Quirino: ovviamente qui si intende che Quirino e Romolo fossero (come erano in realtà in epoca arcaica) due figure distinte, perché proprio da Cures venne Tito Tazio. Dal dio derivano i nomi del colle Quirinale e della porta omonima.


NB: Le immagini sono tratte dal web e rintracciabili cliccando sopra. Non mi appartengono in alcun modo. Questo blog non ha fini di lucro.



4 commenti:

GIOCHER ha detto...

Sia la figurazione originaria del Iovis Pater che il ballo a saltello dimostrano abbastanza chiaramente collegamenti, tramite probabilmente gli Etruschi arcaici, con il Sardus Pater e il passo dei Mamutones!

Aristarco di Samo ha detto...

Attenzione, forse nella direzione che intendi tu! :-)
Secondo svariati archeologi (alcuni in effetti un po'... discussi) gli Etruschi avrebbero avuto l'influsso dai Sardi, e non viceversa.
Quindi che il saltello venga dalla Sardegna? :-)
Ari
PS: un libro divertente (ma sballatiello) è "I sette re di Roma" di P. Zullino che immagina una lotta in Roma arcaica tra fedeli del Dio-Fuoco (Marte) italico e il dio-cielo (Giove) etrusco! Quindi i Tirreni non avrebbero mai e poi mai "adottato" le danze del loro nemico!

GIOCHER ha detto...

M'ero dimenticato di ringraziarti per avermi ricordato di DelPonte, scivolato come al solito nei vari dimenticatoi di graduatoria mnemonica. No, comunque io sottolineavo una radice comune, senza "freccia del tempo" di origine. Sia l'Etruria che la Sardegna sono ancora talmente poco studiate approfonditamente sia archologicamente che etnograficamente che il discorso sarebbe piu' che lacunoso,all'attuale...
;)

LEONARDO ha detto...

vi segnalo gli studi di medardo arduino sull'origine della civiltà nel centro italia