domenica 4 gennaio 2015

SCUDI MITICI 3. – LO SCUDO DI ENEA



Approfittiamo del nuovo anno per chiudere un po’ di conti rimasti in sospeso… Così ecco una nuova puntata dedicata alla nostra serie sugli scudi del mito, in attesa del finale dedicato a uno scudo mitico… un po’ più moderno.
Le altre parti di questa disamina le trovate QUI (Gli scudi dei Sette Contro Tebe),  QUI (Lo scudo di Achille), QUI (Lo scudo di Eracle), QUI (altri scudi del Mito Greco) e QUI (Lo scudo di Marte)




LO SCUDO DI ENEA

Il terzo grande poema epico dell’Antichità è senza dubbio l’Eneide: l’opera scritta da Virgilio doveva rappresentare la summa della romanità e proporre il modello ideale che potesse mostrare come i figli dell’Urbe non dovessero avere nessun complesso di inferiorità culturale e artistico nei confronti dell’Ellade. Così come le armi romane avevano prevalso su quelle greche, così la poesia latina, e augustea in particolare, dovevano poter competere con i modelli greci.
Così Orazio scrisse un monumento “aere perennius”, così Virgilio scrisse il poema epico che doveva rivaleggiare per arte e fama con i modelli Omerici.

Rivaleggiare, ma non dimenticare: a differenza di un Ennio che esaltava la storia repubblicana, il poeta mantovano, spinto da Mecenate e dalla volontà di Ottaviano Augusto, decide di giocare sullo stesso campo dell’aedo cieco. Così l’argomento si riallaccia alla vicenda Iliaca (Enea fugge da Troia dopo la caduta della città) e stilemi e situazioni sono prese a man bassa dall’epos omerico.

Non stupisca, dunque, di ritrovare tra i vari topoi rivisti in chiave romana, anche la descrizione di uno scudo, sul modello dell’ekphrasis dell’Iliade: si tratta dello Scudo di Enea.


Siamo nel canto Ottavo: Venere, madre dell’eroe, scende nell’officina del marito Vulcano, e lo supplica di fornire a Enea delle armi per la guerra che si prepara, così come il fabbro divino le concesse a Teti per Achille e ad Eos, l’Aurora, per Memnone.
Vulcano era stato nemico dei Troiani e protettore di Achille, ma di fronte alle coccole della fedifraga moglie (e a un rapporto neppure troppo sottinteso) si dichiara disposto. Dopo essersi riposati dalle fatiche amorose, si alza, all’ora in cui la vedova si leva per il lavoro che le consentirà di mantenere i figli senza doversi risposare, e si reca sull’isola che da lui prende il nome: Vulcano.
Qui, dentro il cratere della montagna di fuoco, si trova la fucina dei Ciclopi, Sterope, Bronte e Piracmone (tra i greci detto Arge), intenti a forgiare i fulmini di Zeus, a riparare il carro di Marte e a adornare l’Egida di Pallade. Con pochi ordini, Vulcano li destina ad altro lavoro: “fabbricare le armi a un valoroso”. Così “l’oro e il bronzo ruscellano a fiotti”, l’acciaio “si fa liquido” nella fornace, e infine “saldano sette piastre circolari d’acciaio”, di grandezza decrescente e preparano un grande scudo, in grado “da solo a respingere tutti i dardi dei latini”.

Nel frattempo Enea sta concludendo la sua alleanza coll’Arcade Evandro, stanziato proprio lì dove sorgerà Roma, e si dirige verso la terra degli Etruschi, antenati di Mecenate, alla ricerca di alleati.
Nel bosco sacro presso il fiume di Cere, la città più devota fra tutte (“Caerimonia” non deriva forse proprio dal nome di questa città?), bosco che i Pelasgi consacrarono a Silvano, Venere appare al figlio e gli consegna l’elmo “dalla criniera terribile che sembra sprizzare fiamme”, la spada “fatale”, la corazza di bronzo, gli schinieri d’oro ed elettro, la lancia e soprattutto lo scudo, “istoriato di scene inenarrabili”.

Già, perché Vulcano, “non ignaro di vaticini e conscio dell’avvenire”, così come aveva fatto per Achille ed Eracle aveva istoriato sui sette strati di scudo alcune simboliche vicende della futura storia di Roma. Così, dopo le apparizioni delle anime nei Campi Elisi, Enea ebbe la visione di grandi imprese e grandi infamie che avrebbero atteso i suoi discendenti e un’ulteriore conferma del destino che attendeva la sua stirpe.



Come già abbiamo visto negli scudi di Achille ed Eracle, le immagini scelte danno una visione complessiva del mondo, descrivono un kosmos (un mondo ordinato) e la scelta dei soggetti rappresentati non è casuale: se il poeta dice che nello scudo erano rappresentate “tutta la razza della stirpe futura a partire da Ascanio e le guerre combattute”, pare evidente che la scelta doveva essere ragionata e rappresentativa anche di quanto omesso.

Il bordo esterno era diviso in sette settori: il numero sacro ritorna dopo le “sette piastre”, e il riferimento ai Sette Colli potrebbe essere casuale… se non, appunto, nella numerologia. Vi era poi una fascia circolare con i delfini, e il centro diviso in due settori.
E così arriviamo all’altro numero (pitagorico) della perfezione: il dieci. Che poi è il numero complessivo di settori dello scudo di Achille.

Vediamo prima i settori esterni.
Nel PRIMO settore appare la Lupa che allatta nella grotta Romolo e Remo.
Nel SECONDO il ratto delle Sabine durante i giochi nel Circo, la conseguente guerra contro i Curiati di Tito Tazio e infine il giuramento di alleanza tra Romolo e Tazio davanti all’ara di Giove.
Nel TERZO settore il supplizio di Mettio Fufezio, fedifrago dittatore di Alba Longa.
Nel QUARTO la guerra contro Porsenna e l’assedio di Roma, con Orazio Coclite che faceva abbattere il ponte Sublicio dietro di sé e Clelia in fuga.
Nel QUINTO episodio Tito Manlio difende il Campidoglio dai Galli e un’oca d’argento avvertiva gli assediati dell’inganno dei celti.
Nel SESTO le danze dei Salii e dei Luperci, tra berretti di lana e gli Ancilia (i dodici scudi tra i quali si nascondeva quello di Marte) mentre le matrone portavano sui cocchi arredi e immagini divine.
Nel SETTIMO erano raffigurati da un lato il Tartaro con la punizione dei malvagi (in particolare Catilina) e i giusti cui Catone dava le leggi.

L’OTTAVO settore era circolare, e rappresentava il mare rigonfio con delfini nuotanti.


Al centro c’erano due settori: nel NONO si vedeva la battaglia di Azio, nel DECIMO il trionfo di Ottaviano.

La scena della battaglia avveniva alla presenza di Marte: da un lato c’era Ottaviano, con le schiere Italiche, i senatori, il popolo, i penati e gli alti dei e infine Agrippa; e dall’altro Antonio “con la potenza barbarica”, seguito con infamia dalla “consorte egiziana” che, presa dalla battaglia, non vede ancora le “serpi gemelle” alle sue spalle.
La battaglia delle navi umane è anche battaglia di dei: da un lato “mostruosi dei d’ogni sorta e Anubi che latra”, dall’altro Nettuno, Venere e Minerva, mentre Marte e le Furie infuriano; accorre anche la Discordia, gioiosa, e Bellona brandisce la frusta insanguinata. Infine Apollo Aziaco tende l’arco, e davanti a lui tutte le forze dell’oriente si danno alla fuga, seguite dalla stessa regina diretta verso il Nilo, rappresentato addolorato.

Nell’ultimo settore, infine, Cesare, condotto in triplice trionfo nelle mura di Roma, consacra trecento santuari ai Numi italiani; tutta la città gioisce e Ottaviano, sedendo sul bianco seggio di Febo accoglie i doni dei popoli vinti: Africani, Lelegi, Cari, Geloni della Scizia, i Parti dell’Eufrate, i Morini della Belgica, i Daghi del Mar Caspio e gli Armeni che vivevano sulle rive dell’Arasse.

Enea è estatico nel vedere quelle immagini di cui non sa il senso, e ne esulta: poi, come aveva fatto caricandosi sulle spalle il padre Anchise al momento di fuggire da Troia, “prende in spalla gloria e Fati dei nipoti”.



Queste in sintesi le immagini. Ma quale criterio di scelta possiamo immaginare che sia stato seguito da Virgilio?
Il Primo (la Lupa e i gemelli) e il Decimo settore (il trionfo di Ottaviano) sono evidentemente i limiti cronologici: la nascita di Roma e la sua consacrazione come dominatrice del mondo, portatrice di quella pax romana che nelle Res Gestae Divi Augusti era il suo più grande vanto. E il decimo settore ci dà anche le coordinate geografiche di questo imperium: non si tratta solo dei popoli sconfitti (o, nel caso dei Parti, con cui si era stabilito un accordo diplomatico), ma dei “quattro angoli” del dominio romano, quelli che Ottaviano raccomandò di non superare al suo erede Tiberio.

Il secondo settore (il ratto delle Sabine e il patto con Tito Tazio) e il terzo (il supplizio di Mettio Fufezio) raffigurano la fondazione di Roma e le prime lotte nel Lazio, specchio delle lotte che Enea sta per sostenere contro gli italici. Ma ci mostrano per la prima volta nello scudo (ma non sarà l’ultima) anche altri due aspetti del dominio romano: la conciliazione e l’assorbimento dei “nemici” italici, che porta allo sviluppo dell’imperium, e la (giusta) punizione di chi tradisce. Ottaviano aveva ricevuto per la guerra contro Antonio il giuramento delle popolazioni italiche, e Antonio era stato proclamato nemico pubblico, violatore dei patti di obbedienza alla Res Publica.

Quarto e quinto rappresentano le minacce alla Repubblica: l’assalto degli Etruschi di Porsenna e la minaccia gallica. Più ancora della minaccia di Annibale (che era sempre stato “alle porte” ma non aveva mai assediato l’Urbe), questi due episodi narrano del pericolo estremo subito dalla città, ed esaltano le figure dei difensori. Ottaviano aveva appena difeso l’Italia e Roma dall’attacco di Antonio e di Cleopatra (mai chiamata col suo nome in questi versi: è il nemico “barbaro” per eccellenza), ed è emulo di Coclite e di Manilio.

Il Sesto settore è legato alla religione: da un lato i riti che garantiscono la pax deorum e l’esaltazione dei pignora imperii, le sette “garanzie” del potere romano; dall’altro il collegio che era legato ai riti della fertilità e quindi della prosperità della città.
Non dimentichiamo che Ottaviano si diede da fare per restaurare gli antichi riti, e diede nuova linfa ai Salii (formati da membri delle più nobili famiglie) e riformò i Luperci (riservandoli all’ordine Equestre): si tratterebbe dunque di un ulteriore indizio della conciliazione voluta da Augusto (tra uomini e dei, tra ordini sociali) ma anche un nuovo richiamo alle origini mitiche di Roma (i Salii erano legati a Marte, i Luperci al mito della Lupa)
Il settimo si rifà alla religione ma sottolineandone gli aspetti oltremondani: la punizione dei malvagi (rappresentati da Catilina, colui che cercò di rovesciare la Repubblica, il simbolo stesso della discordia nella Città) e la pace di giusti, che continuano a vivere nel rispetto delle leggi, guidati curiosamente da Catone Uticense, nemico di Cesare ma esaltato per la sua integrità morale, il suo rispetto delle leggi e l’amore per la patria. Per gli stessi motivi Dante avrebbe ripreso l’Uticense come guardiano del Purgatorio.

 
Quindi punizione di chi porta la discordia e viola i patti (Mettio Fufezio, Catilina) ed esaltazione di chi difende Roma. La stessa situazione si trova anche al di là dell’ottavo settore (dove il mare richiama da un lato l’Oceano cosmico che circonda lo scudo di Achille e dall’altro prepara alla battaglia navale): Ottaviano e gli Italici in lotta contro Antonio e i barbari guidati dalla loro regina.
E’ una battaglia umana, ma come detto è anche una battaglia di dei: con Ottaviano e Agrippa (i nuovi gemelli conciliati), con gli Italici ecco Venus Genetrix, l’antenata degli Eneadi ma anche (e soprattutto) degli Iulii; ma anche Minerva, la dea delle arti e della guerra saggia, e Nettuno, il dio del mare. E se il dio del mare appoggia una flotta contro l’altra, dove andrà la vittoria? Azio è stata voluta dagli dei, per compiere il destino di Roma.
Dall’altra si schierano mostruosi dei barbari e soprattutto Anubi: il dio dell’oltretomba, che attende gli sconfitti per condurli, possiamo supporre, accanto a Catilina, nel posto che spetta loro.
In mezzo una concessione al gusto del macabro che avevamo trovato nello Scudo di Eracle: ecco le Furie e la Discordia (che ci aspettiamo, visto che è una lotta fratricida, anche se Ottaviano preferiva mostrarla come la guerra di Roma contro l’Egitto) e Bellona, incarnazione degli aspetti più truci della guerra (si veda la sua frusta insanguinata). E sopra tutti ecco la presenza di Marte, che forse non è il Mars Ultor, il Marte vendicatore di Cesare, ma ancora una volta la guerra nei suoi aspetti più sanguinosi.
Apollo Aziaco, lo stesso Apollo protettore dei Troiani, finalmente interviene e porta alla vittoria la parte che è nel giusto per quanto riguarda il diritto, umano e divino (se mai nella Roma pagana queste due forme di diritto potessero davvero essere separate). E Ottaviano ringraziò il dio, erigendo sul promontorio di Azio un tempio in suo onore.



Come detto, il decimo settore è il trionfo di Ottaviano, il coronamento della storia di Roma: da Enea fuggiasco, ultimo eroe di una città distrutta, siamo arrivati all’eroe della città che domina il mondo.
E questo dominio, questa pax romana, non può che derivare dalla pax deorum: trecento santuari sono dedicati ai Numi d’Italia, “davanti agli altari vittime coprivano la terra”, e lo stesso Augusto riceve la sottomissione del mondo non da un trono mortale, bensì seduto sulla soglia del candido tempio di Apollo Palatino, dedicato nel 28 a.C.

Cosa rappresenta, dunque, lo scudo di Enea? Che idea del mondo ci vuole dare?
E’ il mondo di Roma, un mondo che trova il suo compimento, il suo equilibrio dopo una guerra spietata. Non dopo una guerra nata da motivi d’onore, come accadeva nello scudo di Achille, o una guerra orrida, come appariva nello Scudo di Eracle: è una guerra sgradevole, certo, ma è voluta dagli dei perché gli uomini non hanno rispettato i patti, non hanno seguito quel percorso che l’eroe Enea ha iniziato.
Lui, il pius, colui che è caratterizzato dalla pietas, la sottomissione al volere divino: Ottaviano Augusto ne è il discendente non solo di sangue, ma in spirito. Agisce nel rispetto del piano divino, nella direzione della conciliazione e dello sviluppo dell’Urbe e del compimento dei suoi fata, e il suo successo è inevitabile più che indiscutibile.
 


ALCUNE PICCOLE NOTE…
Silvano era inizialmente un epiteto di Fauno o di Marte, ripreso dal dio etrusco Selvans. Divinità ambigua, come spesso accadeva, per Virgilio era “il dio del bestiame e dei campi”. Pare fosse una minaccia per i neonati, e per salvaguardarli dal suo intervento nefasto, si invocavano le tre divinità Pilumnus (da “pilon”, pestello o da “pilum”, il giavellotto, con cui si colpiva la porta di casa per cacciare Silvano), Intercidona (la dea “dai colpi di scure” dati alla porta per la stessa ragione) e Deverra (la dea della scopa con cui si spazzava l’uscio per proteggere i bambini).
Pilumnus è, per Virgilio, padre di Dauno e quindi nonno di Turno.
Secondo altri, Pilumnus sarebbe una variante di Picumnus (per altri fratello del dio), legato al mitologico Picus. Un ulteriore rito fatto alla nascita di un bambino prevedeva di costruire un letto supplementare per ospitare il dio protettore e di conficcare per terra un palo.

Da notare che Virgilio parla di un bosco presso la città Etrusca di Cere, dedicato a Silvano: forse la citazione del dio non è casuale. Narra un mito che Tarquinio il Superbo, cacciato dalla città, convinse due città etrusche di Veio (la più classica rivale etrusca della Roma delle origini) e di Tarquinia (tradizionale città alleata dei Tarquini, che proprio da lì sarebbero partiti per l’Urbe) ad attaccare la neonata Repubblica e a rimetterlo sul trono. La battaglia si svolse nella Selva Arsia, strappata da Anco Marcio ai Veienti stessi. La battaglia fu tremenda: morirono Arrunte, figlio di re Tarquinio il Superbo, e Bruto, il Liberatore di Roma, e con loro oltre diecimila uomini da una parte e dall’altra. Dice Livio (Ab Urbe Condita II, 7) che si udì una voce “ingentem” che diceva: “in battaglia è caduto uno in più fra gli Etruschi; i Romani avevano vinto la battaglia”. Al che gli Etruschi fuggirono e i Romani rimasero padroni del campo.

Sette le piastre per formare lo scudo di Enea (cinque quello di Achille). Perché sette?
Sette sono le stelle del Carro, sette i pianeti classici (e dunque sette sono i bracci della Menorah), sette i giorni della settimana, sette le Pleiadi; sette i pignora imperii di Roma; sette gli eroi contro Tebe, sette le mucche di Iperione mangiate dai compagni di Ulisse, sette fanciulli (e sette fanciulle) erano inviate da Atene a Creta come pasto per il Minotauro; sette i Rishi principali dell’Induismo, sette per due (quattordici) le cose più desiderabili per gli Arya; sette gli Apkallu (i saggi) della Mesopotamia; sette i saggi della Grecia e le Meraviglie del Mondo Antico; sette i palmi della distanza tra sole e terra nella cultura Cherookee… se dovessimo esplorare il significato mitico del numero sette non basterebbero tutti i post che possiamo dedicare a Mitika.
In un sistema di base 60 (la base 12 x 5 come le dita della mano) sette è il primo numero per cui non si può dividere la base ottenendo un numero intero. E se è vero che il sistema a base 60 (basato su quello a base 12) era ben precedente a quello a base 10 (qui non c’è tempo e spazio per discutere questa affermazione… ci basti darla come ipotesi), questo dava al sette una valenza sicuramente importante.
Ah! E naturalmente Sette erano i re di Roma (in realtà 8, contando Tito Tazio, co-reggente).

Perché abbiamo richiamato il 10 come numero Pitagorico? Anche qui poco spazio per un argomento complesso come il Pitagorismo di Virgilio, che già era emerso nella concezione delle anime nobili pronte alla reincarnazione viste da Enea nei Campi Elisi, al termine del Canto VI.
Basti come iniziale spunto di indagine questi link sul Neopitagorismo e QUESTO sui rapporti tra Virgilio e questa scuola così come emergono nel Canto VI dell’Eneide.
Per il pitagorismo “ereditato” da Dante (se si parla di Virgilio…) si veda inizialmente QUI, testo che io lessi nell’edizione dei Fratelli Melita (1988). Come si suol dire: se non vero, è ben pensato. E ci fa ribadire che Dante era veramente un genio.



Catilina, “sospeso a un minaccioso sasso, atterrito dalle Furie” evoca alla lontana una variante meno famosa del supplizio di Tantalo: era posto sotto una rupe che eternamente minacciava di cadergli sopra e schiacciarlo.

Tra i pignora imperii, almeno tre erano stati probabilmente portati da Enea: lo scettro di Priamo, il velo di Iliona e il Palladio.

E' appena il caso di notare che lo scudo dato ad Enea è tondo come quello di Achille: non è dunque lo scudo tipico del legionario romano.

 
Nota Bene: gran parte delle immagini sono tratte dal web e comunque nessuna di esse mi appartiene; sono qui a corredo di un articolo di critica. Questo blog è senza fini di lucro.


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