Non abbiamo dimenticato alcune “rubriche”
rimaste in sospeso, seppur da molto tempo… Ecco così una nuova parte di analisi degli scudi mitici, che
abbiamo incominciato a vedere QUI (Gli scudi dei Sette Contro Tebe), QUI (Lo scudo di Achille), QUI (Lo scudo di Eracle) e QUI (Gli scudi di Atena, Agamennone
e Perseo)
GLI ANCILES E LO SCUDO DI MARTE
Oltre a quello di Atena di cui abbiamo
parlato QUI c’è un altro scudo mitico e divino di
cui, in realtà, abbiamo solo narrazioni sommarie: lo scudo del dio Marte.
Marte [1] era il dio che “accanto a
Giove, era il vero dio principale e capostipite della popolazione italica” come
illustrano dotti studiosi [2].
Egli appare più volte nel mito romano, e
neppure la successiva identificazione con il sanguigno e irrazionale Ares, dio
greco-tracio, poté cancellare nei romani la sua originaria figura: nei miti
laziali è il padre di Romolo e Remo, protettore dei Re e della Città (Mars Pater o Marspiter così come esisteva Giova Padre = *Iou-piter>Iuppiter).
Il Marte italico era dunque padre ma
anche dio dei campi (e della sorveglianza degli stessi) [3], della primavera
(mese Martius) e della gioventù (ver sacrum), della luce e del tuono.
I suoi animali, da buon dio Indoeuropeo,
erano il lupo (e infatti una lupa allevò i suoi due divini figli Romolo e
Remo), il picchio e il toro, nonché il cavallo. Anche il gallo era un animale a
lui sacro, visto le matrone romane sacrificavano questo animale in onore del
dio.
Il dio, nella sua forma di Mars Gradivus [4] manifestò il suo
favore facendo cadere il suo scudo dal cielo nel bel mezzo del Foro Romano.
Si era sotto il regno di Numa Pompilio, il
secondo re (sabino) di Roma[5], assai noto per essere pius, cioè rispettoso del volere divino. Il re stava riorganizzando
le leggi di quel branco di apolidi e ladroni che erano gli abitanti del
Palatino: da buon saggio antico aveva incominciato con il fissare le norme
religiose, grazie ai consigli della sua immortale amante, la Ninfa Egeria.
Era scoppiata un’epidemia, e il re
cercava la pax con gli dei per poter
salvare la città: fu allora che, secondo le tradizioni, il dio italico Mars Gradivus fece cadere lo scudo, per
manifestare la sua approvazione e protezione.
La pestilenza cessò poco dopo.
Com’era questo scudo divino?
Si trattava di uno scudo bilobato, da
quel che ci è dato capire con un modello simile ad alcune armi micenee, e il
dio fece sapere che era il pegno dell’invincibilità di Roma.
C’era però un problema: la ninfa Egeria
fece sapere che chi avesse avuto lo scudo sarebbe stato assai potente. Per
evitare che qualche casata ne approfittasse o, peggio ancora, fosse rubato da
vicini invidiosi, Numa cercò di mescolare le carte: incaricò Mamurio Veturio di
forgiare undici copie perfette dello stesso, in modo che nessuno potesse
distinguere l’originale dalle copie.
E così si arrivò al simbolico numero del
dodici.
Lo scudo di Marte (assieme agli altri
undici) fu conservato nella Regia,
l’antica dimora di Numa, e divenne uno dei sette pignora imperii, le garanzie che Roma avrebbe dominato il mondo.
Gli scudi furono affidati a un collegio
di sacerdoti chiamati “Salii” (i
“Saltellanti”) perché, durante le feste in onore del dio, facevano una tipica
danza col passo saltellante (ogni tre passi un saltello, da cui il ritmo del trium-pus > triumphus). Mentre danzavano, cantavano il Carmen Saliare, uno dei documenti più arcaici della lingua latina
che ci sia arrivato (seppure in frammenti).
I sacerdoti Salii venivano scelti tra i
figli di famiglie patrizie di origine Ramnes
(i dodici Salii Palatini,
leggendariamente istituiti da Numa per il culto di Marte) o Titienses (i dodici Salii Quirinales, istituiti da Tullo Ostilio e dedicati al culto di
Quirino). Requisito indispensabile per ognuno di loro era che i loro genitori
fossero ancora in vita al momento della scelta. La nomina era a vita, tuttavia
era loro permesso di abbandonare l’ordine se avessero ottenuto un sacerdozio di
maggiore importanza oppure una grossa carica pubblica [6]. Come nel caso di
altri collegi decaduti, Augusto cercò di rivitalizzare anche questo sacerdozio
I loro riti, tenuti in Marzo e Ottobre,
onoravano il Padre Marte e Quirino [7]: quest’ultimo era un dio dei sabini se
accettiamo l'etimo che vuole il suo nome legato a curis, la punta della lancia o della spada; ma anche l'etimo più
accettato, che lo lega ai Quiriti o alle *co-viria
> curiae, le assemblee degli
uomini (in armi) divisi secondo le antichissime tre tribù genetiche romane dei Ramnes (probabilmente di origine latina),
Titienses (probabilmente di origine
sabina) e Luceres (forse di origine
etrusca). [8]
Sempre nella Regia erano conservate le dodici lance consacrate a Marte, le hastae Martiae, usate negli stessi riti:
si credeva che se queste avessero incominciato a vibrare, sarebbe accaduto
qualcosa di terribile.
Secondo la leggenda, le aste vibrarono
la notte del 14 marzo del 44 a.C. quando Giulio Cesare, che ricopriva
la carica di Pontefice Massimo, venne ucciso nel Senato.
Al termine dei loro riti, riposte le
sacre armi, i Salii banchettavano in un modo talmente opulento da essere
divenuto proverbiale: lo cita anche Orazio nella sua ode Nunc est bibendum (Odi, I, 37).
Alcune piccole note...
DUE COLLEGI E DUE CARMINA
Ed ecco qui brani del Carmen Saliare,
come riportati da due dotti eruditi e antiquari latini: sono in versi saturni,
i più antichi (e ancora soggetti a interpretazione sullo schema da parte degli
studiosi).
Il dotto studioso che ha riportato il
primo e il terzo nella sua opera De
lingua Latina nei passi del capitolo VII 26, 27, è Marco Terenzio Varrone;
il secondo frammento è invece riportato da Quinto Terenzio Scauro, che ha
tramandato il secondo nel suo De
orthographia.
I frammenti recitano:
(fragmentum 1)
(LA) « divum +empta+ cante, divum deo supplicate »(IT)« cantate Lui, il padre degli Dei, supplicate il Dio degli Dei »
(fragmentum 2)
(LA) « cume tonas, Leucesie, prae tet tremonti \ +quot+ ibet etinei de is cum tonarem »(IT) « quando tuoni, o Dio della Luce, davanti a Te tremano \ tutti gli Dei che lassù ti hanno sentito tuonare »
(fragmentum 3)
(LA) « ...cozeulodorieso. \ Omnia vero adpatula coemisse. \ Ian cusianes duonus ceruses dunus Ianusve \ vet pom melios eum recum. »(IT) « ... \ ... \ ... di Cerere ... Giano \ ... »
I linguisti non sono stati in grado di
tradurre la maggior parte del testo (quella presentata è una delle possibili
traduzioni relativa ai primi due frammenti); i termini latini in esso
riconoscibili sembra che citino il tuono, Giano, Giove e Cerere. La lingua
usata è così antica che già nel I secolo a.C. Cicerone dichiarava di non essere
capace di comprendere la maggior parte del canto in questione.
Il Tempio della Dea Dia, venerata dagli Arvali |
Simile al Carmen Saliare era il Carmen
Fratrum Arvale anch'esso in versi saturni. Si tratta di un inno rituale,
redatto in un latino del VI –V secolo a.C. Esso era recitato durante le
Ambarvalie, cerimonie religiose per i campi e, da quel che ci resta, possiamo
dedurre che si trattasse di una preghiera rivolta ai Lari ed a Marte, affinché
proteggessero gli uomini ed i raccolti. Così come accade per il Carmen Saliare,
questa poesia era di difficile interpretazione già per i romani dell’età
classica.
Alle Ambarvalie erano preposti i
“Fratelli Arvali”, un collegio di (ancora una volta) dodici sacerdoti: essi
avevano come insegne ghirlande di spighe e bende bianche; la loro funzione era
quella di immolare gli animali rituali (si trattava di una suovetaurilia, ovvero il sacrificio di una pecora, di un maiale e
di un toro) dopo averli portati per i campi, di fare libagioni in onore degli
dei e poi di recitare il carme, accompagnandolo con danza. Non sappiamo se
nella danza degli Arvali ci fossero saltelli o meno, ma il fatto che nel carmen sia citato “triumpe” (da cui deriva il ‘trionfo’) ci fa immaginare che si
battesse tre volte il piede o ci fosse un ritmo ternario nella danza.
Il nome del collegio è collegato alle
parole arvum o aruum, la “terra lavorata”. Plinio il Vecchio ci dice che questo
collegio fu fondato da Romolo stesso, e i primi “fratres” furono lui stesso e gli undici figli di Faustolo ed Acca
Larenzia, il pastore e la moglie che accolsero ed allevarono Romolo e Remo.
Il culto più arcaico era rivolto alla
Dea Dia e a Marmar o Mavors, poi confluiti nelle figure di Cerere e Mars Pater.
SUL NUMERO DODICI
Il numero dodici ha un grande valore
simbolico: dodici sono i mesi dell'anno, i segni dello Zodiaco, le tribù
dell'Anfizionia Delfica, le tribù di Israele, le prime Leggi scritte a Roma (le
Leggi delle XII Tavole), le fatiche di Eracle\Ercole, il numero dei Titani e
delle Titanidi sommati insieme, il numero degli Apostoli, ma soprattutto le
dodici grandi divinità olimpiche della mitologia greca: Zeus, Era, Poseidone,
Demetra, Apollo, Artemide, Efesto, Atena, Ares, Afrodite, Hermes e Dioniso.
Quest'ultimo prese il posto di Estia: con questa modifica la componente “maschile”
prese il sopravvento nell'assemblea, perché già Atena votava sempre “secondo il
padre”.
Dodici grandi dei si trovano anche nella
religione romana, caratterizzata prima da triadi di origine etrusca (la triade
Capitolina: Iuppiter, Iuno, Minerva) e triadi agrarie (Libero,
Libera, Cerere): essi erano protagonisti dei “lettisterni”.
Il Lettisternio era una cerimonia sacra
di origine greca, un rituale convito durante il quale si offrivano vivande alle
divinità; esse erano adagiate su un letto (pulvinar)
con il braccio sinistro appoggiato su un cuscino (pulvinus) così come accadeva ai convitati dei banchetti degli
umani.
Si narra che il primo fu celebrato per
otto giorni nel 399 a.C. per ordine dei Libri Sibillini (tanto per cambiare):
gli dei onorati erano Apollo e Latona (quindi le due divinità di provenienza
orientale erano già entrate nel pantheon romano, probabilmente col tramite
degli Etruschi), Ercole e Diana, Nettuno e Mercurio, disposti a coppie su tre
letti.
I Libri Sibillini avevano prescritto la
cerimonia per rimediare a un’epidemia conseguenza di un inverno rigidissimo e
di un’estate straordinariamente afosa, e il rito fu affidato al collegio dei duumviri sacris faciundis (pochi anni
dopo divenuti decemviri sacris faciundis
con metà del collegio composto da plebei; in età forse sillana divennero quindicemviri e Cesare aggiunse un
sedicesimo membro), e contemporaneamente anche i privati imbandirono tavole per
i passanti, chiunque essi fossero, e si astennero dalle liti; inoltre furono
tolte le catene ai prigionieri, anche se Tito Livio piamente ci ricorda che in
seguito
“ci si fece scrupolo di rimetterle a coloro a cui gli dèi avevano concesso quell'aiuto.”
(Ab Urbe Condita, V,13,4.)
Il lettisternio più ricordato è però
quello del 217 a.C., una delle tante cerimonie fatte per avere il favore degli
dei durante la guerra annibalica: si era subito dopo la devastante sconfitta
del Lago Trasimeno, e Annibale era alle porte. Così si fece una supplicatio attraverso il lettisternio:
durò tre giorni e fu compiuta a cura dei decemviri
sacris faciundis.
Questa volta le divinità “invitate al
banchetto” erano dodici, le maggiori della religione olimpica, seppur in
versione Romana; forse in questa occasione alle divinità femminili furono date
più convenientemente delle sedie invece dei letti.
Ennio, nei suoi Annales, cita i dodici
dei e forse parlava proprio di questo avvenimento del 217 a.C.; li riporta in
ordine sparso, probabilmente per esigenze metriche:
“Juno Vesta Menerua Ceres Diana Venus MarsMercurius Joui Neptunus Volcanus Apollo”
Da altre fonti abbiamo invece
l’indicazione delle coppie divine, e scopriamo che a Roma esse avevano una
distribuzione talvolta diversa da quella greca: si rimanda forse all’idea del sacrum coniugium.
Così, su sei pulvinari, si trovarono
Giove e Giunone (la coppia regale per eccellenza); nel secondo Nettuno e
Minerva; sul terzo Marte e Venere (forse non uniti per i loro amori adulterini
narrati da Omero: se il guanciale era rappresentativo delle sorti di Roma, ecco
che il dio Padre di Romolo e la dea madre degli Eneadi univano insieme il
destino della città e del popolo); sul quarto Apollo e Diana; sul quinto
Vulcano faceva coppia con Vesta (il legame era dato dal fatto che per entrambi
il compito di pertinenza era il fuoco); sull’ultimo Mercurio e per Cerere
(forse per l’affinità tra il commercio, il merc-atus protetto da Merc-urius, e
i cereali di Cerere).
Le altre coppie sembrano sintomi della
progressiva ellenizzazione della religione Romana: la coppia Nettuno-Minerva è
specchio di quella greca Poseidone-Atena, associati in diversi miti (nella
competizione per l’Attica, nella guerra di Troia).
Dumézil, seguito da altri, hanno cercato
invece di interpretare i sei abbinamenti divini con altrettanti fenomeni naturali,
o con elementi cosmici (l'aria, le nubi, la pioggia, il fuoco, il freddo, le
messi, il mare) sebbene ciò sia stato contestato: secondo gli oppositori la
cerimonia del 217 mostra l’affermazione di una religione che si era evoluta in
culto di stato; i richiami del grande studioso di mitologia comparata paiono
far ricorso a una sorta di senso religioso arcaico.
Il culto di Venere in quanto Aeneadum genetrix (e quindi del popolo
romano) si ritrova già attestato dal proemio del De rerum Natura di Lucrezio, che fu contemporaneo di Cesare (morì
nel 50 a.C.) ma quando Roma non era ancora sotto il controllo totale del
dittatore.
A prescindere dall’interpretazione di
Venere nella filosofia epicurea del poema, ricordiamo che sia Silla (Venus Felix) che Pompeo (Venus Victrix) esaltavano la dea come
protettrice: Cesare probabilmente inserì la pretesa di discendere dalla dea
attraverso Enea e suo figlio Ascanio\Iulo in un sentimento già diffuso. Il
culto della dea (e quello di Mars Ultor,
il Marte vendicatore dei cesaricidi) fu poi ampliato sotto Augusto.
I
PIGNORA IMPERII
Racconta Servio nel suo commento a
Virgilio che
«ci furono sette garanzie a tenere il potere a Roma: l'ago della Madre degli Dèi, la quadriga di argilla dei Veienti, le ceneri di Oreste, lo scettro di Priamo, il velo di Iliona, il palladio, gli ancilia »
Lo scettro di Priamo, il velo di Iliona
e il Palladio (una statua di Atena\Minerva) furono presumibilmente lasciti di
Enea nella sua fuga (anche se si narra che il Palladio originale fosse stato
rubato da Ulisse prima della caduta di Troia: finché la statua fosse rimasta in
città, Ilio non sarebbe mai caduta); la quadriga di argilla dei Veienti fu
preda di guerra dopo la conquista della città Etrusca a opera di Marco Furio
Camillo (nella stessa occasione fu portata la statua di Iuno Regina).
Le ceneri di Oreste destano qualche
perplessità: si dice che il figlio di Agamennone morisse a Oresteia, la città
fondata da lui durante il suo esilio da Micene (o Argo) e che fosse seppellito
a Tegea. Le sue ossa non riposarono però lì per sempre. Le lotte tra Sparta e Tegea
avevano visto i Lacedemoni perdenti; consultato Delfi (in età arcaica l’oracolo
era decisamente filospartano) questi scoprirono che dovevano impossessarsi
delle ossa dell’antico re.
Recuperate le spoglie, lunghe sette cubiti, esse
furono portate a Sparta, dove furono seppellite presso il santuario delle
Moire: e da allora gli Spartani vinsero ogni battaglia contro i Tegeati. Come
poi da queste ossa si sia passato alle ceneri, e il legame tra Roma e Oreste è
poco chiaro: una variante latina del mito, riportata da Servio, dice che Oreste
morì ad Aricia (attuale Ariccia), in uno dei luoghi in cui si diceva ci fosse
il culto di Artemide Taurica (si vedano i misteriosi legami tra Diana di
Aricia, Virbio e il ramo d’oro del Rex
Nemorensis che ci porterebbero troppo lontano… almeno fino al Ramo d’Oro di Frazer!), le sue ossa (e
non le ceneri) sarebbero poi state portate a Roma e sepolte sotto il tempio di
Saturno.
A meno che non si vogliano citare i
mitici rapporti tra il regno dell’Arcade Evandro sul Palatino ed Enea,
ricordando che Oreste era anche signore dell’Arcadia (dove si trova Tegea); ma
Evandro dovrebbe essere contemporaneo di Enea e quindi di Agamennone, quindi
una generazione prima di Oreste.
Quanto all’ago della Madre degli Dei,
era la pietra nera di forma conica portata da Pessinunte a Roma su consiglio
dei Libri Sibillini per scongiurare il pericolo di Annibale.
La Pietra è un oggetto che riveste
notevole importanza nel romanzo Anno Mille (del sottoscritto!) per cui si veda QUI
https://www.facebook.com/Anno1000
SU QUIRINO
I Flamines
Maiores, ovvero i flamini maggiori, il vertice della struttura sacerdotale
romana delle origini, erano il Flamen
Dialis (il Flamine di Giove), il Flamen
Martialis (il flamine di Marte) e il Flamen
Quirinalis (il flamine di Quirino).
Questi tre dei erano l’originaria Triade
Capitolina, che poi, su influsso etrusco (Tini-Uni-Menrva) e greco si sarebbe
trasformata nella triade Iuppiter-Iuno-Minerva (Giove, Giunone Regina,
Minerva).
Come detto, Quirino fu successivamente
identificato con Romolo divinizzato; la moglie di Romolo, Ersilia, fu
ugualmente divinizzata col nome di Hora
Quirini.
Il più antico santuario di Quirino era
la rupe più alta del colle Quirinale, là dove si erano attestati i Sabini di
Tito Tazio dopo la guerra conseguente al Ratto delle Sabine e la conquista del
Campidoglio in seguito al tradimento di Tarpeia. Secondo la tradizione, Tito
Tazio gli aveva dedicato un sacello sul Campidoglio (il che conferma la
composizione della triade originaria), ma questo fu “exaugurato” (cioè perse il
suo carattere sacro) in occasione della costruzione del tempio di Giove Capitolino
al tempo di Tarquinio Prisco (tempio poi completato dal Superbo).
In seguito a Quirino fu costruito un
tempio presso la porta Quirinale, seguì un secondo nel 293 a.C., dedicato da
Lucio Papirio Cursore: lì era conservato il trattato fra Roma e la città di Gabii,
scritto su una pelle di bue che copriva (guarda un po’!) uno scudo.
Questo tempio fu restaurato da Augusto il
29 giugno 16 a.C.: il giorno della dedica divenne la nuova festa di Quirino.
Gli Ancilia sono l’oggetto “magico” di
cui si occupa un’avventura del gioco di ruolo di ispirazione classica chiamato Lex Arcana. Secondo la trama, in un
Impero Romano alternativo, a seguito di un oracolo gli scudi sono stati
spostati sul Vallo Adriano. Per maggiori informazioni cliccate QUI.
SALTARELLI MITICI
Tralasciando per il momento tutta la
problematica del dio del fuoco (o dio artigiano) zoppo (si vedano Efesto e
Vulcano), qui ricorderemo solo brevemente il dio Indù Skanda: benché il nome di
questo dio della guerra sia tradotto più spesso come “lo zampillante”,
Santillana e Von Dechend (Il mulino di
Amleto, cap.10) danno come traduzione alla lettera “colui che salta”,
collegato al pianeta Marte.
Graves (I miti greci, 98.2-3) analizza la danza delle gru fatta a Delo (ma
a imitazione di una simile fatta a Cnosso) da Teseo e dai suoi compagni
destinati al Minotauro: secondo il mitologo, si tratterebbe di una “danza della
pernice” che avrebbe riprodotto i movimenti “estatici e saltellanti” dell’animale
[1] Il nome del dio, Mars, probabilmente
deriva dal più antico MAVORS o MAMERS: quest'ultimo ha un raddoppiamento iniziale
del nome MARS, e da esso deriva quello di "MAMERTINUS", nome di un
carcere romano, e MAMERTINI, i mercenari campani che fuorono il pretesto per la
Prima Guerra Punica.
[2] Preller, Romysche Mythologie citato in R. Del Ponte, Dei e miti italici - Archetipi e forme della sacralità romano-italica,
ECIG, 3a ed. 1988. Se lo trovate leggetelo: è uno dei libri che mi ha
illuminato sulla religiosità italica, troppo spesso sottovalutata a favore
dell'interpretatio graeca.
[3] Catone il censore, nel suo De Agri Cultura ci riporta una preghiera
a Marte protettore dei campi da malattie e sciagure.
[4] lett. “colui che va”, probabilmente
legato al concetto del ver sacrum, i
nati durante una “primavera sacra” che dovevano partire a fondare una nuova
città, su cui tanto di potrebbe\dovrebbe dire. In seguito ebbe il significato
più ristretto di “colui che va in battaglia”, quando Marte fu identificato con
Ares o, comunque, quando prevalse il suo aspetto bellicoso.
[5] In realtà Numa era il TERZO degli
OTTO re di Roma! La notizia non stupisca, in quanto Tito Tazio fu per un certo
periodo re di Roma assieme a Romolo: accadde dopo la guerra originata dal Ratto
delle Sabine... salvo che il re sabino fu poi eliminato, probabilmente su
ispirazione di Romolo stesso. Che si trattasse fratello, suocero o comunque
collega, Romolo pare non avesse scrupoli ad eliminare coloro con cui avrebbe
dovuto spartire il potere…
[6] Polibio racconta che Publio Cornelio
Scipione, fratello dell’Africano, rallentò il suo esercito accampato sull’Ellesponto
in attesa di far guerra ad Antioco il Grande di Siria: Publio era stato
nominato membro dei Salii, e come tale non poteva lasciare il luogo in cui si
trovava nei trenta giorni in cui i fratres
facevano sacrifici. I tabù dei diversi sacerdoti romani sono un tema lungo, ma
affascinante.
[7] Quirino era un antico dio della
guerra: Plutarco parla di lui usando il termine Enyalios (“guerriero”, dio
conosciuto nelle tavolette in Lineare B di Micene e poi declassato a soprannome
di Ares); secondo il commentatore Servio sarebbe “il Marte che presiede alla
pace”. Si potrebbe ipotizzare che, mentre Mars prendeva sempre più caratteri
bellicosi in seguito all'identificazione con il greco Ares, Quirino conservava
gli attributi “pacifici” originari del dio latino.
[8] La parola sarebbe etimo anche della
città di Cures, in Sabina, fondata da Modio Fabidio, figlio appunto di Quirino:
ovviamente qui si intende che Quirino e Romolo fossero (come erano in realtà in
epoca arcaica) due figure distinte, perché proprio da Cures venne Tito Tazio. Dal
dio derivano i nomi del colle Quirinale e della porta omonima.
NB: Le immagini sono tratte dal web e rintracciabili cliccando sopra. Non mi appartengono in alcun modo. Questo blog non ha fini di lucro.
4 commenti:
Sia la figurazione originaria del Iovis Pater che il ballo a saltello dimostrano abbastanza chiaramente collegamenti, tramite probabilmente gli Etruschi arcaici, con il Sardus Pater e il passo dei Mamutones!
Attenzione, forse nella direzione che intendi tu! :-)
Secondo svariati archeologi (alcuni in effetti un po'... discussi) gli Etruschi avrebbero avuto l'influsso dai Sardi, e non viceversa.
Quindi che il saltello venga dalla Sardegna? :-)
Ari
PS: un libro divertente (ma sballatiello) è "I sette re di Roma" di P. Zullino che immagina una lotta in Roma arcaica tra fedeli del Dio-Fuoco (Marte) italico e il dio-cielo (Giove) etrusco! Quindi i Tirreni non avrebbero mai e poi mai "adottato" le danze del loro nemico!
M'ero dimenticato di ringraziarti per avermi ricordato di DelPonte, scivolato come al solito nei vari dimenticatoi di graduatoria mnemonica. No, comunque io sottolineavo una radice comune, senza "freccia del tempo" di origine. Sia l'Etruria che la Sardegna sono ancora talmente poco studiate approfonditamente sia archologicamente che etnograficamente che il discorso sarebbe piu' che lacunoso,all'attuale...
;)
vi segnalo gli studi di medardo arduino sull'origine della civiltà nel centro italia
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