PAROLA DELL’INDOVINO
(un immaginario botta e risposta tra un aedo e un
cantautore)
Dimmi Tiresia
Dal regno dove mai nessuno si è recato
Versami il sangue
Scavami un botro
Un buco per sbirciare tra il mio destino e il Fato
(Vinicio Capossela, Dimmi Tiresia)
Nella terra
dei Cimmeri, là dove il sole è debole e va a morire ogni giorno, Vinicio
Capossela ci conduce a un’altra figura mitika: l’indovino cieco Tiresia, cui
ogni marinaio perso nella vastità del mare vorrebbe chiedere il futuro.
Ma,
nonostante il titolo della canzone e l’appellazione, il protagonista è solo
apparentemente il veggente: siamo comunque nell’album “Marinai, profeti e
balene” e quindi il vero fulcro della canzone non è la profezia del vate, ma
chi pone la richiesta, ovvero il marinaio per eccellenza Ulisse.
Come era
accaduto esplicitamente per la canzone Nostos il modello per
Capossela sembra ancora una volta Dante: il Ghibellin fuggiasco parla di
Tiresia, e lo colloca all’Inferno, nella quarta bolgia dell’Ottavo cerchio,
riservata a maghi e indovini; l’attacco della parte a lui riservata è
“Vedi Tiresia, che mutò sembiante … ”(Dante, Commedia, Inferno XX, 40-42)
A
sottolineare questa discendenza dal Padre della Lingua Italiana, il medesimo
sintagma linguistico dantesco (verbo all’imperativo + nome di Tiresia) qui
viene ripreso, leggermente modificato (“Dimmi” e non “Vedi”, poiché ci si
rivolge a due persone diverse nei due episodi) diventando anafora martellante.
Come Dante
all’Inferno incontrò Tiresia e poi Ulisse, prima del fiorentino lo stesso
Ulisse d’Itaca si recò agli Inferi (che poi in Omero così Inferi non sono):
oltre l’Alighieri la traccia di Capossela riprende, come è giusto, il canto XI
dell’Odissea, la Nekyia, la discesa agli Inferi, il punto estremo cui può
giungere un viaggiatore.
Spento il giorno, e d’ombraRicoperte le vie, dell’OceánoToccò la nave i gelidi confini,Là, ’ve la gente de’ Cimmerj alberga,Cui nebbia, e bujo sempiterno involve.Monti pel cielo stelleggiato, o scenda,Lo sfavillante d’ôr Sole non guardaQuegl’infelici popoli, che tristaCirconda ognor pernizïosa notte(Omero Odissea, XI, 15-23)
Così recita la classica versione di
Ippolito Pindemonte.
Ulisse giunge alla terra dei morti,
camminando in riva alla corrente di Oceano, assieme all’ultima nave e alla
compagnia picciola che gli era rimasta, su indicazione della Maga Circe, figlia
del Sole. Al più grande indovino della Grecia degli Eroi, l’uomo dalla mente
tortuosa deve chiedere lumi sul suo futuro.
Su indicazione di Circe, ecco che
Ulisse scava “la fossa cubitale” (come dice Pindemonte)
[...] e meleCon vino, indi vin puro, e lucid’ondaVersaivi, a onor de’ trapassati, intorno,E di bianche farine il tutto aspersi.Poi degli estinti le debili testePregai, promisi lor, che nel mio tetto,Entrato con la nave in porto appena,Vacca infeconda, dell’armento fiore,Lor sagrificherei, di doni il rogoRïempiendo; e che al sol Tiresia, e a parte,Immolerei nerissimo arïete,Che della greggia mia pasca il più bello.(Omero Odissea, XI, 31-42)
Perché chiedere ai morti, alla loro
preveggenza su cui Dante stesso si interroga nel canto X dell’Inferno? I poteri
di Tiresia sono rimasti anche nell’aldilà, dunque? Quanto sopravvive dell’uomo
oltre la nera soglia?
Forse, più semplicemente, i morti sanno
il nostro futuro perché sono il nostro futuro: “Tu sei come noi fummo, noi
siamo come tu sarai” dice l’adagio.
Comunque sia, Ulisse va.
Cerca Tiresia che fu un tempo uomo
e un altro donna, ma non interrogherà una donna vera, anzi respinge
inizialmente l’ombra della madre Anticlea.
Eppure la femmina, madre e prefica
era lo specchio della madre Terra Gea che fa crescere la vita, “ne sustenta et
governa” e accoglie i morti sepolti. Per questa ragione la donna era spesso la
privilegiata nel contatto con i morti: a chi si rivolse un empio Saul, l’uomo
che ormai ha perso la strada dritta che conduce a Dio, per interrogare l’ombra
del profeta Samuele, se non alla strega di Endor? E Hermodr lo Svelto (o il Coraggioso)
scese nello Hel per pregare Hela, mentre suo padre Odhinn interroga la Volva,
la Veggente, sul prossimo Ragnarokkr.
In fondo a filare il destino di
ogni uomo sono le tre sorelle, le Moire in Grecia e le Norne in Scandinavia: ma
se Atropo taglia il filo della vita solo al momento giusto (per altri eroi sarà
fiabescamente un capello) dimostrando più inevitabile opportunità che
preveggenza, Skuld vede il futuro.
Ulisse cerca l’indovino maschio
perché siamo nel maschilizzato mondo Omerico: qui Cassandra profetizza il vero
ma non viene creduta, la Sibilla Cumana vuole solo morire e la Pizia è una
povera giovinetta delirante e posseduta dal dio.
E’ il mondo dove Calcante domina, e
Ulisse non cerca la profezia di Manto ma quella del padre di lei Tiresia.
Per ottenere l’aiuto dei morti non
bastano le preghiere, ma occorre il sacrificio cruento: bisogna restituire a
loro, temporaneamente, parte della vita. Ecco dunque il sacrificio di due
vittime, un montone e una pecora. Subito le anime si precipitano, ma Ulisse le
scaccia con la spada, come se le ombre temessero ancora il ferro.
Finalmente si avvicina Tiresia, con
in mano “l’aureo scettro” proprio della sua funzione.
L’arte di Omero fa sì che l’indovino
si rivolga al vivente con un interrogativo, rovesciando in apparenza quello che
deve essere il rapporto tra lui e Ulisse:
Uomo infelice,Perché, del Sole abbandonati i raggi,Le dimore inamabili de’ mortiScendesti a visitar? Da questa fossaTi scosta, e torci in altra parte il brando,Sì ch’io beva del sangue, e il ver ti narri.(Omero, Odissea, XI, 124-129)
Che i poteri di Tiresia siano
indeboliti e lui come un vampiro abbia bisogno del sangue per riprendere vigore? O, visto che
il sangue fa da porta, Tiresia deve berne per vedere al di là di quella soglia
dalla parte dei morti, che non possono vedere il futuro perché la loro umbratile
esistenza è fatta di un non-tempo sempre uguale (il sole non splende sui morti,
quindi implicitamente il tempo per loro non trascorre) in cui l’unica
dimensione temporale è quella del passato.
Il Mitiko Vinicio immagina la
risposta dell’Itacense:
Bevi il mio sangue
Che porti alla memoria la coscienza di chi ero e sono stato
Ma è meglio sapere o non sapere
Aver la conoscenza
Sapere o non sapere
Quello che poi mi sporcherà(Vinicio Capossela, Dimmi Tiresia)
Novello Amleto,
l’Ulisse caposseliano si trova sperduto, indeciso se essere o non essere. “Chi
ero e sono stato?” si chiede, e davvero vuol sapere “quello che poi mi
sporcherà”, le azioni anche crudeli e spietate che dovrà compiere?
Perché il
dubbio è quello eterno del marinaio, quello che avrebbe portato all’ultima
domanda di David Bowman al Monolite Nero su Europa se il secondo episodio di “Risvolti
mitologici nei rapporti tra giovani uomini e giovani donne” fosse mai stato
disegnato dalla mano fatata di Paciolus:
Dimmi Tiresia
Affido a te il mio viaggio
Alla tua sentenza
Tu che già sai, com’è filato il mio cammino
Sapere o non sapere
Se la donna mia mi aspetta se è fedele
Sapere o non sapere(Vinicio Capossela, Dimmi Tiresia)
Si esplicita
il parallelismo tra Ulisse e il Corrucciato Principe Danese. L’eroe greco narrerà
fantasiose storie di pirati del Mediterraneo e dovrà tornare per vendicarsi dei
Proci; Amleto nel viaggio in mare verso l’Inghilterra e l’assalto dei pirati
trova paradossalmente la sua libertà e la possibilità di operare la sua vendetta.
Dimmi Tiresia
Quali stratagemmi dovrò ordire
In quale forma mi dovrò nascondere
Dimmi Tiresia
Ma è meglio sapere o non sapere
E non poter più credere
Sapere e poi dovere
Portare fino in fondo il compito(Vinicio Capossela, Dimmi Tiresia)
Ulisse dovrà celare il suo aspetto, scoprire chi è fedele e chi non lo è:
la sposa? Il figlio? I servi?
E’ di fronte allo scoglio più duro, all’ “essere o non essere”: come
Amleto deve scegliere se sapere (“essere”) ed ottenere l’obbligo di portare
fino in fondo il suo compito di vendetta, anche contro chi, forse, non avrebbe mai
voluto, o non sapere (“non essere”) e avere la libertà dell’inconsapevolezza.
Lo sfaccettato Ulisse che sarà di Dante non può venir meno all’imperativo
del “seguir virtute e canoscenza”, non può negarsi “l’esperienza”. Le sue
domande a Tiresia sono retoriche, la risposta è già insita nel fatto che è
giunto fino alla terra dei morti per avere quella conoscenza che, al momento di
ottenerla, dubita di volere.
Dimmi Tiresia
E’ duro profetare
La conoscenza è distanza che separa
La fatica di conoscere
E’ più grande fatica di essere creduti?
Dimmi Tiresia
Tu che dimentichi e ricordi e poi dimentichi
E così purifichi
A che mi servirà sapere
Saper il mio destino come già deve compiersi
E poi non esser più creduto dai compagni
Soltanto dai segni nei sogni
(Vinicio Capossela, Dimmi Tiresia)
“La
conoscenza è distanza che separa \ La fatica di conoscere \ E’ più grande
fatica di essere creduti?”
Questo è il
punto.
Sapere prima,
saltare i passaggi: è veramente utile avere la conoscenza senza esperienza? Chi
crederà al profeta? L’Ulisse di Capossela già pre-vede la rovina dei suoi
compagni sull’Isola di Trinacria, i suoi sforzi vani di salvarli, non ha
bisogno che Tiresia glielo riveli.
Il Fato, lo
stesso che condusse inevitabilmente Edipo al parricidio, a Tebe e all’incesto,
non si può cambiare con la conoscenza anticipata. Anzi: il sapere il destino
che attende, il voler contrastare quello stesso destino è il vero motore che
porta al compimento dello stesso.
La colpa di
Edipo non è un “peccato” come l’incesto: la sua hybris è la presunzione di sapere tutto, di poter gestire il suo
destino come gli dei che sanno leggere il telaio in cui è intessuta la vita di
ogni uomo.
La speranza
è dunque una sola:
Dimmi Tiresia
Togli la sete
Conoscilo e poi scordalo
Bevi di questo Lete
Conoscilo e poi scordalo
La conoscenza è niente senza fede
Conoscilo e poi scordalo
La conoscenza è niente senza fede
La conoscenza è niente senza fede(Vinicio Capossela, Dimmi Tiresia)
Questo è l’Ulisse
caposseliano: l’uomo che trova sé stesso (Borges parlerebbe di giustificazione
della propria esistenza) nella tensione verso l’obiettivo, non nel suo
raggiungimento. L’uomo che ha bisogno dell’ignoto per essere vivo.
L’uomo che,
di conseguenza, quando conosce deve dimenticare, bere dal Fiume Lete che si
trova negli Inferi (e che Dante sposterà nel Paradiso Terrestre accanto all’Eunoè,
il fiume che mantiene i ricordi del bene fatto). Scordare per riprendere l’eterna
fatica di Sisifo vista in una prospettiva positiva
Per la stessa ragione del viaggioViaggiare(F. De Andrè \ I. Fossati, Khorakhané)
I dubbi si
sciolgono e il profeta parla. Non serve riportare Omero, tanto Capossela nel
suo recitato finale è fedele, se non che tralascia di raccontare il viaggio per
mare che ancora attende Ulisse nell’Odissea: l’odio di Poseidone, la profezia
della rovina dei compagni e dello sterminio dei Proci.
Quello che
interessa il nostro Vinicio è “l’altro ultimo viaggio di Ulisse”, dopo quello
narrato in Nostos (che però nell’album
è la traccia successiva a Dimmi Tiresia),
quando
UccisiDunque o per frode, o alla più chiara luce,Nel tuo palagio i temerarj amanti,Prendi un ben fatto remo, e in via ti metti(Omero, Odissea, XI, 158-161)
Un viaggio con uno strumento di
navigazione, un remo, ma da fare per terra, fino a giungere là dove nessuno
conosce il mare, dove nessuno conosce Poseidone lo Scuotiterra
Nè cosperse di sal vivande gusta,Nè delle navi dalle rosse guance,O de’ politi remi, ali di nave,Notizia vanta.(Omero, Odissea, XI, 164-167)
E’ l’omaggio più grande che si
possa fare a un dio irato: piantare il remo come una bandiera di possesso, portare
il suo culto là dove non è mai giunto prima, dove non potrebbe giungere.
Ma leggiamolo dalle parole di Vinicio Capossela
Ma leggiamolo dalle parole di Vinicio Capossela
Vai oltre il ritorno
Porta sulle spalle un remo
Abbandona la casa e vai errante nel sole
Fino a gente che non batte il dorso del mare
Che non conosce i cibi conditi col sale
Che confonderà il remo con un ventilabro
Un rastrello per spargere intorno sementi
Per pettinarle nelle crine dei venti
Lì lo poserai offrirai sacrifici
(Vinicio Capossela, Dimmi Tiresia)
E quali saranno questi sacrifici?
Un suovetaurilia (un maiale, una pecora e un toro) secondo il rito indoeuropeo
che tante volte vedremo rappresentato nei rilievi romani, e poi tornato a casa
delle ecatombi a tutti gli dei.
Solo cosìLa morte ti coglierà dal mare
Consunto da splendente vecchiezza
Tra gente felice attorno
Questo ti dico senza tema nè dubbio.(Vinicio Capossela, Dimmi Tiresia)
Se Tiresia
promette anche in Omero la morte in tarda vecchiaia, Pindemonte dice però
E a poco a poco da muta vecchiezzaMollemente consunto, una corteseSopravverrà morte tranquilla, mentreFelici intorno i popoli vivranno.(Omero, Odissea, XI, 179-182)
Da dove trae
Capossela la notizia della morte che coglierà Ulisse dal mare?
La versione
greca di Omero parla di morte “ex alòs”, che può essere tradotta “dal mare” o “lontano
dal mare”. Insomma: Ulisse morirà pacificamente o a causa del persistere della
vendetta di Poseidone?
Narrano
mitografi successivi al cieco aedo di Chio che di ritorno dalla terra che non
conosce il mare, Ulisse scoprì che il figlio avuto da Penelope, Telemaco, si
era dato un esilio volontario da Itaca: il giovane aveva scoperto una profezia
secondo la quale Ulisse sarebbe stato ucciso dal suo stesso figlio.
Non sapeva
Telemaco che, durante la sua permanenza di un anno da Circe “là presso Caieta
prima che Enea sì la nomasse”, Ulisse aveva generato nella maga un figlio,
Telegono.
Divenuto
adulto, Telegono andò alla ricerca del padre, e sbarcò di notte. Gli Itacensi
pensarono a un attacco di pirati e chiamarono in aiuto Ulisse, che subito
accorse: ci fu uno scontro e nel buio Telegono colpì il padre mortalmente con
una lancia con la punta di razza. Così si compì la profezia. [1]
In seguito
Telegono fu purificato dal suo involontario delitto e sposò la sempre giovane
Penelope; il fratellastro Telemaco, tornato dal volontario esilio, sposò la
maga Circe: così i due rami della discendenza di Ulisse si unirono di nuovo.[2]
[1] Robert
Graves, ne I miti greci, 171.3 (che
rimanda a 93.a e .c) collega la morte di Ulisse per mano di Telegono alla
vicenda di Catreo, re di Creta, e di suo figlio Altemene, un mito simile in
alcuni tratti e in altri opposto.
Una profezia
diceva che Catreo sarebbe stato ucciso da suo figlio; così Altemene, come
Telemaco in seguito, partì in esilio volontario a Camiro di Rodi. Arrivato a
tarda età, il padre volle andare alla ricerca del figlio: i cretesi sbarcarono
nella notte a Rodi e dei mandriani li scambiarono per pirati. Le spiegazioni di
Catreo furono coperte dall’abbaiare dei cani, Altemene accorse e con una lancia
colpì a morte il genitore. Quando finalmente si scoprì la verità, Altemene
pregò che la terra si aprisse e ne fu ingoiato, benché ancora in epoca storia
gli si tributassero onori eroici.
Lo
svolgimento dei due miti (se vogliamo lo sbarco e l’incomprensione si trovano
in un’altra forma anche nel mito di Telefo che abbiamo esaminato QUI) prevede un
rovesciamento: qui è il vecchio padre a cercare il figlio, e non viceversa;
allo stesso modo il figlio uccide per errore il padre (Telefo fu ferito da Achille,
ma non erano parenti stretti; Edipo uccide per errore il padre Laio; Perseo
colpisce a morte, non volendolo, il nonno Acrisio con un disco durante dei
giochi), ma invece che sposare la matrigna, e quindi ereditare il regno,
Altemene sparisce in una voragine.
Il suo
sparire e il culto eroico che gli viene dedicato, ricordano in alcuni aspetti
il destino di Anfiarao dopo l’infausta spedizione dei Sette contro Tebe.
Nell’epopea
iranica Sohrab dalle Labbra Sorridenti andò alla ricerca del padre Rostam figlio
di Zal, di cui aveva solo sentito parlare: per gli intrighi di Afrasiab i due
non si riconoscono e Rostam uccide per errore il figlio, poi disperandosi.
Artù uccide (e
viene ferito mortalmente da) suo figlio Mordred dopo uno sbarco, ma i due
sapevano benissimo contro chi combattevano, e volevano uccidere l’altro.
[2] Sempre
Graves, I miti greci, 171.4 vede in
questo doppio matrimonio incrociato un evento eccezionale, anche se poi cita il
matrimonio tra Illo, figlio di Eracle, e Iole, concubina del padre.
NB: testo (specie quello della canzoni di Capossela) e immagini non mi appartengono, ma sono tratte dal web a corredo di questa analisi. Le citazioni da Omero sono dalla classica traduzione di Ippolito Pindemonte. Questo blog non ha fini di lucro.
Ciao! Ho appena trovato, per caso, il tuo fantastico blog e ti devo fare i miei più sinceri e sentiti complimenti!!! Mescolare in maniera così capace e documentata i mitologemi antichi e la nostra contemporaneità non è cosa semplice...(vi è sempre il rischio di cadere nella banalizzazione estrema o nel pressapochismo)
RispondiElimina;w; <3<3<3 adesso credo proprio che leggerò, con sommo diletto, tutti i tuoi post!!!