Prosegue
il viaggio tra le canzoni di Vinicio Capossela ispirate al mito,
viaggio che è iniziato QUI
Tra
le canzoni “mitike” di Vinicio Capossela contenute nell'album
“Marinai, profeti e balene” forse “Nostos” appare come la più
semplice da decrittare: gran parte del testo è ripreso dal Canto
XXVI dell'Inferno della Comedìa di Dante.
I
meno distratti da insegnanti di lettere*, ricorderanno che nella
Bolgia dei Consiglieri Fraudolenti (l'Ottava), Diomede e Ulisse
dividono una sola fiamma antiqua, puniti per l'eternità per aver
portato alla distruzione Troia con l'inganno del cavallo.
E
ricorderanno la tipica frase da docente: “Dante non conosceva il
greco, e sapeva pochissimo di Omero e dell'Odissea. Le sue fonti,
soprattutto Virgilio, gli dicevano che Ulisse era arrivato dalla maga
Circe e poi... E poi Dante dovette inventare”.
Così
Dante inventa l'ultimo viaggio di Ulisse, il “folle volo”. Una
delle più potenti, belle, profonde riflessioni sull'uomo, sul suo
destino, sul suo rapporto con Dio.
Ma
seguiamo la scelta dei testi che Vinicio Capossela ha fatto.
“Né pietà di padrené tenerezza di figlioné amore di mogliema misi me per l’alto mare apertooltre il recinto della ragione,oltre le colonne che reggono il cielo,fino alle isole fortunate,purgatorio del paradisoNostos NostosFino alle terre retro al sol e sanza gente”
Capossela
inizia dal terzo verso della narrazione dell'Ulisse di Dante, ovvero
dalle motivazioni che non ci furono.
Nè
il padre, né il figlio (e questa diade iniziale non ci può far
dimenticare che Dante conosce, invece, benissimo Virgilio e la scena
della fuga da Troia di Enea), né l'amore per la moglie possono
trattenere Ulisse dalla sua sete di conoscenza.
E
sta qui la differenza fondamentale tra l'Ulisse Omerico e quello
dantesco: il primo viaggia per il Nostos, il ritorno; il secondo
viaggia per non tornare.
Ma
per andare dove?
“Il
recinto della ragione”: se la pietà (sentimento filiale e di
devozione agli dei) non è sufficiente, anche la ragione non basta.
In fondo sta per iniziare un “folle volo”, no? Quanto al
“recinto”, è un ostacolo, un limite, ma anche una difesa. La
Terra non è forse il Migd-gardr, il “recinto di mezzo” tra il
sopra e il sotto? E la ragione non è equilibrio?
Le
colonne d'Ercole sono una metafora troppo conosciuta per doverle
approfondire: i limiti oltre il quale l'uomo non doveva spingersi. E
Vinicio fa un'aggiunta tratta dal mito, sì, ma simbolica: se è vero
che una delle colonne è l'Atlante del Marocco, la forma pietrificata
del Titano che regge il cielo, il limite è ancora più simbolico.
Perché Atlante sifdò gli di, e fu punito, e il Cielo, il Kosmos
ordinato, si basa, si fonda, su questa punizione. Non superare i
limiti concessi: in fondo Lucifero non era stato punito per la sua
superbia?
Le
isola fortunate sono un topos fin dai romani. Nell'Atlantico ci sono
isole dove l'infelicità non esiste. Thule, Merich, Antilia, Hy
Brazil... isole da tempo scomparse, o forse esistite solo nel sogno
dei marinai che volevano trovare una casa che non fosse la casa che
già conoscevano. Perché chi ha provato l'onda che si muove, mal si
adatta alla terra che sta ferma.
E
infine l'anticipzione: il “purgatorio del paradiso”. Quello che
aspetta Ulisse, se non che per lui sarà, caso unico nella storia, il
purgatorio che porta all'Inferno.
E
poi il coro che invoca il Nostos, il ritorno che nonci può essere,
nelle terre di retro al sole e senza gente. E se non ci abita
nessuno, il volere di Dio è ben chiaro prima ancora della
conclusione.
" Itaca ha dato il viaggiole sue ombre di viti nel sole e nel miraggiole abbiamo portate dentrocome una bussolaci ha fatto andare oltre gli incantesimie i Lestrìgonioltre le lusinghe dell’eterna giovinezzama a ritornare orala troveremmo vuota di gente e piena di sonnoItaca ha dato il viaggio, Itaca ha dato il viaggiol’hai avuta dentro, ma non ci troverai nessuno”
Il
secondo blocco è il ricordo, e la delusione del futuro.
Itaca,
la petrosa Itaca da baciare belli di fama e di sventura. Itaca ha
dato il via al viaggio, come luogo di partenza, da lasciare, e come
luogo inziale di ritorno. Come luogo, l'abbiamo già detto, cui non
tornare.
“Ombre
di viti nel sole e nel miraggio”: Itaca è un sogno, un sogno che
viene dal vino, dall'illusione che il sole offre ai marinai stanchi.
Sempre lontana, sempre inafferrabile come le illusioni, gli
incantesimi e i “diversi perigli” di Lestrigoni e altri mostri.
Oltre le “lusinghe dell'eterna giovinzza” di una Calipso che
l'Odisseo di Capossela incontrerà in un altro brano e che l'Ulisse
di Dante non incontrò mai.
Perché
Itaca non può essere la vera meta?
Lo
ripetiamo: Itaca è un ricordo che non c'è più, è un sogno.
A
ritrovarla, ci sarebbe solo la disillusione, senza più nessuno di
quelli conosciuti (vivi o morti, che siano. O semplicemente
cambiati), ma solo con il sonno che precede la morte.
Itaca
è morta? Forse.
Forse
è davvero solo la bussola, la motivazione che serve a muoversi
eternamente per tornare verso un luogo ritenuto santo, ritenuto
felice. Come le Isole Fortunate di sopra.
E
allora, forse è meglio non scontrarsi con la dura realtà, mantenere
l'illusione dei Nomi e non incontrare mai la delusione dei Paesi, non
essere un Narratore proustiano che sa sognare solo a occhi aperti, ma
non riesce a dormire, e quindi non sogna mai davvero, non gode il
sogno per quello che è: un desiderio che deve rimanere tale.
Meglio
non tornare a Itaca.
“Fatti non foste a viver come bruti
ma per seguir virtute e canoscenzaconsiderate la vostra semenzaconsiderate la vostra semenza”
Uno
dei versi più famosi di Dante. Una trappola: il motto dei satanisti
“buoni”. (Ehi, sì, ce ne sono! Hanno un concetto di Lucifero un
po' diverso dal Principe delle Tenebre... anzi: per loro è il
Principe della Luce).
L'uomo
misura di tutte le cose o l'uomo con la sua dignità? Qual è la
semenza dell'uomo? Divina o bestiale? Davvero non fummo fatti per
vivere come bruti, se il peccato fu mangiare dell'Albero della
Conoscenza del Bene e del Male?
“Nostos nostos,perdere il ritornobatti le ali,fare da remi al voloali al folle volo!Fino alle terre retro al sol e sanza gentefino alle terre retro al sol e sanza gente”.
Battere
le ali. Già detto all'inizio del canto, ma dedicato a Firenze nella
sua invettiva: “Godi,
Fiorenza, poi che se' sì grande \ che per mare e per terra batti
l'ali,
e per lo 'nferno tuo nome si spande”. Capossela rovescia:
i remi non diventano ali, come per Dante, ma all'opposto le ali
(della fantasia? Del ricordo?) si fanno remi.
Le
ali di un volo folle, un volo verso la rovina. Un volo verso l'unica
terra del “mondo sanza gente”, la salvezza del marinaio e
dell'anima. Una salvezza che però a Ulisse e ai suoi è negata: il
ritorno è perduto per sempre.
Capossela
taglia qui. Non ci è dato sapere cosa accadrà davvero al suo
Ulisse, se tornerà a casa, come vaticina il profeta in “Dimmi
Tiresia” (brano precedente a “Nostos” in questo album) o se
accadrà quanto dice il ghibellin fuggiasco:
“Tre
volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso". **
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso". **
Forse ai veri marinai, ai capitani co(olt)raggiosi è concessa solo questa fine.
**
Nella cultura filosofica di stampo aristotelico la mente umana è
rappresentata come una nave. La poppa è la memoria, la
prua è la fantasia, o immaginazione.Fonte wikipedia
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